7 aprile 2014

DE-MORALIZZARE LA NOSTRA ESISTENZA: CONTRO IL DOMINIO DELLA CONDOTTA E DEL DESIDERIO



Moralizzare il sesso è l’ultima spiaggia di un femminismo moralista che ribalta la criminalizzazione misogina della sessualità femminile e stabilisce che è il sesso dell’uomo ad essere sporco, corrotto, criminale. Il desiderio maschile viene inteso come brutale, la penetrazione è stupro, dicevano le donne della stessa scuola di pensiero della anti/positive/sex, abolizionista della prostituzione e antiporno Andrea Dworkin.
L’unico desiderio buono è quello delle donne, il nostro sesso sarebbe pulito, condito di profumi e fiorellini, e quando racconti che il tuo sesso è sporco, rivendicando il fatto di non avere la fica d’angelo, c’è chi ti dice che non sei normale o che la tua è “una comunicazione urlata”.
Perché noi donne dobbiamo così parlar sommessamente, lasciar cadere il fazzoletto per segnalare che siamo ben disposte verso il corteggiamento, siamo dolcissime, soavi creature, armoniosamente dedite alla cura e quando il nostro orgasmo arriva noi non urliamo, al massimo le nostre corde vocali volgono verso un canto d’angelica natura mentre in sottofondo si leva il suono di violini e campane.
Ci sono femministe che sembrerebbero essere in perenne ronda a sostituire le guardie del buon costume. Ridurre i decibel del sesso, per favore, e se dichiari che ti piace essere presa, stropicciata, appassionatamente stretta e attraversata, è chiaro che in te deve esserci qualcosa che non va. In fondo quell’altro è uomo, mioddio, come potrebbe lui agevolare il tuo piacere se l’identifichiamo con quel mostro che ci toglie fiato, vita, ci violenta, ha le corna, la bava e qualunque sia la relazione che tu intendi avere con costui non può che essere frutto di coercizione.
Se dici che hai ben chiaro quel che vuol dire consensualità tirano fuori una serie di spropositate e abnormi cazzate sulle mille e una forme di introiettamento della cultura machista e lì ti chiedi se e quando ti spetterà mai il patentino della adulta, consapevole e autodeterminata, senza passare da uno psichiatra, un paternalista o una matriarca in veste di sorvegliante della nostra sensibile verginità. Ti chiedi anche com’è che non tengano conto della loro possibile abilità proiettiva, perché patologizzazione porta ad altra patologizzazione, e se farei volentieri a meno di esprimere giudizi che censurano la libera espressione altrui c’è da difendersi dagli evidenti traumi non superati di costoro che sembrano essere tutt* bisognos* di una mega terapia virtuale collettiva. Non possono esser loro ad avere introiettato secoli di cultura moralista, catto/fascista, autoritaria e censoria?
Come si misura il grado di consapevolezza? E da cosa notiamo se una donna è liberata? Esiste un metodo scientifico per certificare che una donna che dice Si voleva per davvero dire Si? E chi siamo noi per giudicare, esprimere giudizi normativi, moralizzare, dividere le donne in quelle per bene e quelle per male, immaginando perfino che tutto ciò debba essere inteso come espressione di un femminismo di valore? Che cosa vuol dire oggi essere dalla parte delle donne? Far loro vivere la vita come gliela dettiamo noi? E’ abominevole che ci sia chi guardi altre con supponenza e ne delegittimi costantemente le scelte, le prove di ricerca, le esperienze, i processi di crescita.
Il mio sesso è sporco e me ne vanto. Come tante tra voi esco da secoli di volgare demonizzazione che racconta la mia vagina come fosse un vortice dentato, le mie voglie come malattie psichiatriche e i miei desideri come attribuibili solamente a spinte riproduttive o per soddisfare il sesso altrui. Ora tante donne sono consapevoli. Scelgono e non sempre, ovviamente, scelgono quel che piace alle altre perché il piacere è soggettivo e non ci può essere una regola valida per tutte.
Il mio sesso è sporco e a farmelo apprezzare, chissà come mai, non fu una donna ma piuttosto un uomo. A insegnarmi, perché talvolta insegnano, a non aver paura dei miei liquidi, a non vergognarmi delle mie imperfezioni, a lasciar fare e mollare fobie e insicurezze per godere. Godere non del godimento altrui ma del mio. Non c’è cosa che faccia eccitare alcuni uomini più che il mio godimento. Si eccitano del mio orgasmo, delle contrazioni della mia vagina, della pelle che brucia e dei brividi che scorrono lungo la schiena. Si eccitano dell’eccitazione e non perché così provano, appropriandosi della mia ricerca, che sono tanto più virili, ché se sostituisci la gara a chi ce l’ha più lungo con quella a chi la fa urlare di più non c’è differenza, ma perché sono consapevoli, talvolta incerti, tanto quanto noi, e non è vero che il loro sesso si erge in presenza di pianti, violenze e terrore. Gli uomini che io conosco quando pensano allo stupro gli si ammoscia. Non è così che immaginano il sesso. Non godono in quel modo. Non gli piace. E per quanto io sappia perfettamente quanto sia diffuso il sessismo e quanto sia consolante per alcuni ritenere che sia gradito un abuso che loro pretendono non sia percepito in quanto tale però c’è un’altra faccia della sessualità maschile che se insistiamo nel demonizzarla viene semplicemente censurata.
Non vorrei incontrare un uomo che prima o dopo una sessione sessuale si flagella per espiare colpe e redimersi di fronte ad una società che vuole il mio corpo puro, perennemente, finanche virtualmente inviolato. Sulla mia figura non si può pensar di sesso, non mi si può desiderare, non si può esercitare seduzione, voglia, pensiero passionale. Quel che resta ed è gradito è l’uomo, paternalista, che tratta se stesso un po’ come un malato, che si pente del sesso che porta in basso e che risulta a volte anche omofobo o transofobo perché sta talmente dentro il suo ruolo di genere, etero, che l’unico modo che ha per essere migliore, senza perciò aver analizzato ed elaborato alcunché circa la propria sessualità, è quello di negarla e farsi prete laico moralista cattiverrimo nei confronti di chiunque altro ancora sembri indulgere nel peccato.
Un uomo che non sente la “colpa” austera, parsimoniosa, del far sesso concedendo tutto di se’ non teme di sperimentare, toccare e lasciarsi toccare, leccare e lasciarsi leccare, legare e lasciarsi legare, bendare e lasciarsi bendare, dominare e lasciarsi dominare, penetrare e lasciarsi penetrare, far godere e ricevere godimento, perché il sesso è reciprocità e non una gara ad evitare angoli di indignazione morale alla ricerca di pornomostruosità identificabili in “quello si”, “quello no” e “quell’altro nemmeno”.
Sono sporca, non amo essere goduta in quanto vittima, che poi è la forma di sessismo più diffusa quella di dare appeal ad una identità sessualmente fragile che se dice no, no, no, e poi è timida, timorosa, ha da rivolgersi alle grandi madri che illustreranno quel che si nasconde dietro l’arma terribile che gli uomini portano in basso, se fa tutte queste cose finisce per eccitare il pene di maschilisti che si erge solo quando tu gli dici che t’hanno salvata, consolata e che senza di loro il nulla.
Sarà per questo che poi questa categoria di femministe ha un gran problema a lasciar ragionare in pubblico altre di squirting, di godimento, di pratiche bdsm, di postporno, di corpi nudi mentre loro stanno lì a tentare ogni giorno di convincerti che l’unica forma di rispetto nei tuoi confronti è quella che nessuno ha da toccarti, pensarti, spogliarti e goderti se non in una timida posa del missionario.
Di sesso tanto c’è da dire ma davvero, a questo punto della mia vita, non mi aspettavo di dover sentire inibita una ricerca giusto da quelle che dovrebbero liberarla. Perché femminismo sta per liberazione e non per moralizzazione. E questo è secondo me.


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