GUERRA PERMANENTE E LOTTA ALLE FRONTIERE

Raccolta di scritti, manifesti e materiale sullo stato di guerra permanente, la militarizzazione e nuovi e vecchi conflitti. Spunti di riflessione per analizzare prospettive di lotta, metodi di intervento e la circolazione di informazioni.
E' ben accetto materiale e contributi, mandaceli alla nostra mail! (nella sezione contatti)
in continuo aggiornamento

Appunti sulla logistica dell'esercito italiano LINK
Guerra e pace: elementi di lotta insurrezionale contro il militarismo e repressione LINK
Il gioco più vecchio del mondo LINK
Le lacrime agli occhi accecano - sulla metrica del lutto e lo stato di emergenza LINK
Opuscolo sulla presenza militare nel Pinerolese LINK
L'infrangersi degli inganni - volantino LINK
Radiocane: stato d’emergenza e pedagogia della paura a Bruxelles LINK
Controguerriglia ed esercito, Nato, strategia e rivoluzione LINK
La valorizzazione dell'esclusione e quella dell'inclusione LINK .
Frontiere e muri intelligenti  LINK


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Riflessioni: Tempi di guerra

Rotoleremo tutti insieme nelle tenebre da cui non si ritorna, e il pozzo buio ci accoglierà, noi e i nostri dei assurdi, noi e i nostri valori criminali, noi e le nostre speranze ridicole”.
( Albert Caraco, Breviario del Caos)
Ho sentito la necessità di scrivere questo pezzo, visti alcuni avvenimenti accaduti negli ultimi mesi nella superpotenza capitalistica europea, sia per quanto riguarda il “fronte interno”, sia per quanto riguarda l’ U.E. nell’orribile gioco delle contese fra stati ed imperialismi rivali nella spartizione ed accaparramento delle risorse, e nello sfruttamento delle popolazioni e dei territori a livello mondiale.
Negli ultimi sei anni, abbiamo assistito ad una accelerazione notevole di alcune dinamiche tipiche del funzionamento del capitalismo e dell’autoritarismo statale ( come il ritorno del “ grande rimosso” della guerra fra superpotenze, e il ritorno anche se “sottotono” dell’incubo nucleare). Con la morte dell’ideologia del benessere, e la caduta di sempre più persone nelle discariche sociali delle periferie cittadine, dove il “ tirare a fine mese” cercando di essere trattati “ a pesci in faccia” il meno possibile da padroni e burocratini, evitando carceri e comunità di reclusione, è il pensiero che schiaccia quotidianamente dominandolo ogni individuo. Tra il 2010 e il 2013 abbiamo visto anche alcune fiammate di rivolta, con le insurrezioni popolari o mobilitazioni radicali che hanno dato da pensare ( pur con tutte le scontate ed immense contraddizioni presenti) alcuni fra i potenti del mondo. In questi anni ‘10 abbiamo assistito nuovamente al crollo dell’ideologia del progresso e alla fine della pace sociale. La guerra e la sopraffazione sono strutturali per ogni società da sempre grembo di ogni autoritarismo. Il mondo corre verso la catastrofe etica e materiale. Sta al cuore di ognuno di noi scegliere: o lottare per provare a iniziare a vivere davvero, o condurre un’esistenza misera da servo.
Il fronte esterno: programmi di riarmo ed il nuovo esercito europeo: Negli ultimi mesi è peggiorato il clima fra le potenze capitaliste ( USA, UE, Russia, Cina). Dopo il fallimento della tregua “ negoziata” della guerra per procura in Siria con la precedente amministrazione Obama (fine settembre 2016), Putin ha annullato l’incontro con il presidente francese Hollande e ha raggiunto un accordo con Damasco per l’ampliamento della base navale di Tartus. Inquietanti e paurosi sono anche le dichiarazioni dei rappresentanti di stato russi: “ I residenti di S Pietroburgo riceveranno razioni di 300 gr di pane al giorno in caso di guerra”. Così ha dichiarato il governatore della città, confermando come le tensioni tra stati rivali siano negli ultimi anni in costante aumento. Sempre nel mese di settembre, diversi missili nucleari sono stati posizionati nella enclave baltica di Kaliningrad, e puntati poi sull’Europa. Intanto, l’imperialismo europeo inizia a dotarsi di nuovi strumenti di morte per poter affrontare la sfida globale fra stati e capitalismi. Sfida che sta iniziando ad essere giocata molto pericolosamente per la spartizione del mondo. Mentre viene stilato e approvato in questi mesi il nuovo programma di riarmo tedesco, i padroni dell’Europa fanno i primi passi per la creazione di un esercito integrato e di una ricerca ed industria accorpate per creare e rifornirsi dei nuovi sistemi d’arma necessari per le loro sanguinose ambizioni. Dallo stato italiano, francese, tedesco e spagnolo è stato avviato un “ piano comune per una difesa europea”. La possibilità di questa “ cooperazione strategica permanente” è stata introdotta già nel trattato di Lisbona, secondo cui anche solo un nucleo ristretto di stati aderenti può rafforzare la reciproca collaborazione nel settore militare. L’obbiettivo dichiarato dai signori della morte è: “ raggiungere un livello di ambizione che permetta all’UE di rispondere alle crisi esterne, di migliorare le capacità di partner colpiti da crisi e instabilità, specialmente in Africa e di assicurare la protezione di popolazione, territorio e valori europei”. Per giungere a questi risultati: “ visto l’attuale e il prevedibile ambiente di insicurezza – l’UE dovrà probabilmente lanciare missioni di carattere militare e/o civile in regioni in cui la NATO non considera di agire, come l’UE fa e ha fatto, ad esempio il Mali, la Somalia, la Repubblica Centrafricana, il Congo, ecc.”. Necessario dunque: “ rafforzare l’abilità UE di valutare autonomamente il suo ambiente di sicurezza e prendere l’iniziativa lanciando operazioni militari da un livello di intensità basso ad uno elevato”. La proposta rilancia anche l’idea di un quartiere generale degli eserciti europei a Bruxelles, e di “ un robusto meccanismo finanziario per supportare l’effettivo dispiegamento di queste missioni ed operazioni”. Già da tempo Juncker ha parlato di “ esercito europeo” e segnali concordi in questo senso erano arrivati da Berlino, forse ancora più che da Parigi. Alle parole seguirono i fatti: innanzitutto l’accordo proprio tra capitalismo francese e tedesco per una collaborazione rafforzata militare, articolata su un documento che delinea una serie di iniziative concrete ed attuabili sul piano bilaterale. Va poi ricordato l’accordo tra stato olandese e tedesco, che prevede che un battaglione “ maritime” tedesco si integri con la marina olandese e che la 43 esima brigata meccanizzata olandese si integri nella prima divisione panzer tedesca. Negli ultimi mesi, approvando il “ libro bianco della difesa”, Berlino ha impostato un programma di riarmamento. Stato tedesco e francese, come ormai quasi tutti gli stati NATO ed europei, stanno aumentando gli stanziamenti per la difesa. Alcune proposte? In primo luogo, come è naturale pensarlo, il lancio di un piano europeo per la ricerca militare che vada ad integrare l’attuale piano di ricerca “duale” “ Horizon 2020”. Nel frattempo, un nuovo round di consolidamenti industriali nel settore aerospazio e difesa sarebbe alle porte in Europa, con protagonisti Airbus e Leonardo. Leonardo ( ex Finmeccanica) ha portato nell’ultimo anno a termine il progetto volto a concentrarne l’attività esclusivamente nel settore aerospaziale/difesa, dopo la cessione a tappe delle attività nei settori energia e trasporti. La differenza dimensionale fra i due colossi è evidente: i dati del 2015 raccontano una Airbus ( controllata dallo stato francese, tedesco e spagnolo) che ha 136000 dipendenti e ricavi per 64,5 miliardi di euro. I numeri di Leonardo non sono certo comparabili, 13 miliardi di ricavi e 47000 dipendenti a fine anno scorso. Con questa ipotesi di unione, il gruppo Airbus diventerebbe l’assoluto dominus della scena europea.
E la NATO? Tutti gli sbandieratori che avevano, con una estrema miopia analitica, dichiarato negli ultimi 60 anni che NATO- Stati Uniti ed Europa costituivano un blocco imperialistico compatto e ormai inscindibile, dovranno brutalmente ricredersi nel momento in cui le contraddizioni fra gli imperialismi, sopite ma mai risoltesi, sono emerse con tutta la loro violenza negli ultimi 6 anni. Da urlare e dichiarare ancora con più forza, in una prospettiva antimilitarista che faccia dell’internazionalismo la propria bussola, è che, oggi come allora, IL NEMICO È IN CASA NOSTRA.
Dopo la vittoria secca di Donald Trump, il padronato statunitense si rivolgerà con più forza verso l’area del Pacifico e dell’Africa, e sarà meno disposto a transigere per il “ fronte orientale”, al punto che persino l’art.5 del trattato atlantico, quello che impegna la NATO alla difesa collettiva, potrebbe essere messo in discussione con il futuro dell’alleanza. Di fatto, l’imperialismo europeo ha due mesi di tempo, per mettere insieme un progetto credibile di integrazione ed efficienza militare delle sue forze, di sinergie tra le sue industrie della difesa, e di investimenti. L’ingranaggio bellico della morte è in movimento a tutta forza, come mai dagli ultimi 30 anni. Le vittime siamo noi, noi e tutti gli sfruttati del mondo, usati, tanto per cambiare, come carne da macello per far arricchire i padroni di casa nostra sulle nostre vite. Il grande assente? La pratica ed il rifiuto di tutta la catastrofe che stanno apparecchiando ancora una volta per l’umanità intera, e che ha nella sensibilità antimilitarista la propria possibilità di riscatto e di emancipazione.
Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto”.
( Paracelso)
Il fronte interno: L’esercito nelle periferie e nei quartieri poveri
Mentre si avvicina rapidamente la possibilità di un nuovo conflitto mondiale, continua l’espulsione delle classi popolari dai vecchi quartieri nei centri delle città ( trasformati ormai in città-vetrina, veri centri commerciali e residenziali per le classi dominanti o per i ceti più elevati di estrazione piccolo-borghese come studenti universitari, o quadri intermedi) alle periferie che, in alcuni casi, iniziano a trasformarsi in vere e proprie baraccopoli, e prosegue il piano di militarizzazione dei quartieri popolari, sull’onda dell’ormai noto e famigerato piano NATO “ Urban operation 2020”. Il rafforzamento dei dispositivi contro-insurrezionali ad opera del dominio prosegue. Mentre nelle “discariche sociali” dove viviamo noi esclusi, al posto della violenza di classe contro ricchi e sbirri, si vanno purtroppo rafforzando in modo significativo le ideologie reazionarie (fasciste ed islamiste) che predicano la guerra fra poveri. Non posso che sorridere nel momento in cui alcune riviste francesi, come il magazine “Valeurs Actuelles”, scrivono ad esempio, che “ la Francia ha oltre 750 zone franche dove non si applica più la legge della repubblica francese” e che, molte periferie della Francia, stanno conoscendo “ una dittatura della marmaglia”. Anche se, è inutile raccontarcela, il vento che tira negli ultimi anni nelle “ banlieu” è chiaramente reazionario, tra i fascisti del fronte nazionale e gli islamisti. E in Italia? Sono in arrivo i primi 150 soldati nei quartieri popolari di Milano. “ Poca sicurezza nelle periferie? Ho chiesto l’invio di militari da destinare alla città”. Queste sono le parole del sindaco di Milano Giuseppe Sala. “ La mia ossessione sono le periferie”, ha dichiarato rilanciando le sue tre parole d’ordine: “ risanamento, riqualificazione, ristrutturazione”, che sembrano ricalcare i capisaldi di intervento del rapporto NATO 2020.
Tutto questo è quello che ci troveremo ad affrontare nei prossimi anni. Davanti alla tragedia in cui ci stanno indirizzando, è quanto più necessaria e urgente una presa di coscienza di ogni singolo individuo cosciente e sensibile, cessando in primo luogo i piagnistei e le scuse che raccontiamo a noi stessi, per poter pensare di insorgere violentemente contro un mondo di morte e di miseria.

Maggiori informazioni qui: 




 
Sardegna - Secondo campeggio antimilitarista 
Dal 5 AL 9 SETTEMBRE 2016
La Rete No Basi né Qui né Altrove propone anche quest’anno cinque giorni di mobilitazione e campeggio, in concomitanza con l’inizio del secondo semestre di esercitazioni militari, per rafforzare i percorsi di lotta contro il militarismo e la militarizzazione dei territori della Sardegna e non solo.

In questo momento l’asse Base Aerea di Decimomannu – Poligono di Capo Frasca può diventare, se già non è così, l’anello più debole della presenza militare in Sardegna. La crisi innescata dall’annunciata dipartita dell’aeronautica tedesca al termine del 2016 potrebbe mettere in forte dubbio l’esistenza stessa dell’aeroporto militare e, conseguentemente, del poligono di Capo Frasca.

Per questi motivi vogliamo creare un clima sempre più ostile contro i militari, affinché possibili nuovi affittuari (in sostituzione dei tedeschi) rivedano i loro propositi e gli italiani stessi vadano sempre più in crisi. L’anno scorso e quest’anno si sono tenute diverse manifestazioni e iniziative nei territori intorno all’aeroporto di Decimomannu, con l’obiettivo di bloccarne le attività, come quella dell’11 giugno contro la STAREX. Queste pressioni hanno dato dei risultati, minando le “condizioni per operare con la serenità necessaria”, come hanno dichiarato i vertici militari a pochi giorni dal corteo.

Annunciamo l’iniziativa del campeggio con largo anticipo, al fine di poter creare un percorso legato al territorio che ci permetta di arrivare ai primi giorni di Ottobre con idee, progetti e partecipazione più ampia e consapevole possibile.

Seguendo quello che per la Rete è stato un tratto distintivo inamovibile, il campeggio non vuole essere una mera iniziativa d’opinione: in quei giorni vorremmo che si alternassero momenti di lotta, socialità, analisi, dibattito, approfondimento, presenza sul territorio e tanto altro. Ci preme avere dei momenti di confronto, in cui si possa ragionare di prospettive ed esperienze e fare un bilancio di come le lotte si sono sviluppate, modificate e allargate.

Il campeggio sarà autofinanziato e autogestito. Come al solito non saranno presenti istituzioni e partiti, chi facesse parte di queste componenti potrà partecipare al campeggio e alle iniziative a titolo individuale, come tra l’altro faranno tutti coloro che vi vorranno contribuire.

Il programma in questo momento è in definizione.

Vorremmo discutere delle ramificazioni dell’apparato bellico e di come colpirle. La nostra attività degli ultimi tempi si è soffermata in particolare: sulle complicità tra civile e militare nel campo della logistica e della ricerca universitaria, sull’opposizione alla RWM Italia spa, fabbrica di bombe di Domusnovas, e in generale sul trovare delle soluzioni efficaci nel creare un territorio inospitale alla macchina bellica.

Quest’anno, a differenza del campeggio tenutosi a Cagliari lo scorso anno, abbiamo deciso di spostare l’attenzione nei pressi dei territori dove si svolgono maggiormente le esercitazioni militari, per approfondire la conoscenza di quei luoghi e rafforzare i rapporti e le relazioni tra le persone.

In questo momento pensiamo che sia importante ritornare a Capo Frasca, davanti a quei cancelli dove il 13 settembre 2014 si riaccese la fiamma dell’antimilitarismo sardo.

Le assemblee della Rete no basi né qui né altrove sono pubbliche, a cadenza settimanale e distribuite in varie zone della Sardegna.

Sul blog della Rete No Basi né Qui né Altrove, nobasi.noblogs.org, verranno pubblicati il programma, gli approfondimenti del campeggio, i prossimi appuntamenti e trovate i nostri contatti.

La Rete No Basi né Qui né Altrove

 Cos'è un muro?
Sul “passo indietro dell'Austria rispetto alla barriera del Brennero”



Nella mobilitazione contro la chiusura della frontiera fra Austria e l'Italia abbiamo definito le barriere “l'emblema del nostro presente”.

Non c'è dubbio che le dichiarazioni dello Stato austriaco di costruire una barriera al Brennero hanno fatto sì che le intenzioni dei nemici di ogni frontiera si concentrassero lì. C'è un aspetto simbolico-emotivo della realtà (e della lotta) che non va trascurato, perché le sue ricadute sono estremamente pratiche.

In tal senso, la giornata del 7 maggio è stata importante, per la sua natura internazionale e la volontà di battersi che ha espresso.

I balletti politico-mediatici degli ultimi giorni meritano un paio di ragionamenti. Gli stessi fini (ignobili) si possono ottenere con mezzi diversi: il contenzioso fra autorità austriache e autorità italiane è tutto lì. Si possono controllare e respingere gli immigrati senza intralciare il transito delle merci.

Il muro è un emblema, ma un emblema ha un mondo dietro, senza il quale non funzionerebbe.

Cerchiamo di spiegare alcuni passaggi per capire come continuare a lottare contro le frontiere e il loro mondo.

Fino a metà marzo, le autorità italiane stavano adeguando le misure da prendere rispetto alla decisione austriaca di “chiudere la frontiera”. Altro che coro di protesta, come scrivono oggi i giornalisti. Le mozioni votate dal consiglio provinciale trentino, ad esempio, prevedevano di intensificare i controlli dei Tir a sud, per evitare colli di bottiglia al Brennero.

Determinare quanto i blocchi di treni e autostrada e la stessa giornata del 7 Maggio abbiano pesato sul preteso dietrofront austriaco non è facile e nemmeno particolarmente interessante. Ma non ci piace neanche passare per fessi.

Innanzitutto, i lavori per la barriera al Brennero sono solo sospesi. Un significativo aumento del flusso di immigrati e il rischio di perdere consenso a favore dell'estrema destra potrebbero cambiare la situazione. Intanto, oltre confine, il decreto legge sullo stato di emergenza e sullo schieramento dell'esercito ai confini è passato.

Ma c'è dell'altro, ed è ciò che di più conta.

Lo Stato italiano sta rafforzando la detenzione amministrativa e costruendo nuovi hotspot (centri di smistamento fra profughi da “accogliere” e irregolari da internare ed espellere).

Intanto, i controlli sull'eurocity Milano/Venezia-Verona–Monaco (OBB) sono aumentati. Siamo di nuovo di fronte ai treni dell'apartheid. A Verona sono ripresi i controlli al viso, per cui chi ha la pelle scura fa sempre più fatica a salire sugli OBB.

Il ministro dell'Interno italiano si è vantato, nella conferenza della settimana scorsa con il suo omologo austriaco, che nessun “irregolare” arriva in Austria con quei treni. Anche senza muro, dunque, la polizia del Tirolo ha ottenuto ciò che voleva. 50 poliziotti della questura di Bolzano e 60 militari sono impegnati stabilmente in funzione anti-immigrati.

È questa la frontiera in movimento che va contrastata, a partire dai suoi collaborazionisti.

Il 7 maggio è stato solo un passaggio.

Cosi come la macchina della deportazione si articola sul territorio, che anche i nemici e le nemiche delle frontiere si organizzino.






Bruxelles: Né la loro guerra, né la loro pace. Per la rivoluzione sociale


Manifesto affisso a Bruxelles
La guerra è arrivata fin davanti alla porta delle vostre case. I militari che stazionano nelle strade ne sono la dimostrazione. I controlli rafforzati in strada fanno sparire centinaia di immigrati nei campi di deportazione. Gli sbirri sono in apprensione e applicano una tolleranza zero schiacciando tutti coloro che non restano all’interno dei ranghi. I giornalisti fanno penetrare il messaggio del potere nelle nostre teste. E il denaro piove per finanziare la lotta contro «la minaccia».
Il piano annunciato dal governo di controllare ogni casa di Molenbeek, e in seguito, come dubitarne, ogni casa nei quartieri popolari, è rivelatore di quale sia il reale obiettivo: gli esclusi, i poveri, i clandestini, i ribelli. Lo Stato sfrutta l’occasione di un atto sanguinario di guerra a Parigi per dare un giro di vite. E dà un giro di vite prima di tutto a livello mentale: che si parteggi per i soldati dell’Isis, o per i soldati dello Stato. È la pura logica della guerra. I due campi ci disgustano entrambi, e per la stessa ragione: tutti e due cercano di imporci il loro potere e la loro legge. L’uno nel nome del capitalismo e del regime democratico, l’altro nel nome della religione e della costruzione del nuovo Stato del califfato. E tutti e due perpetrano massacri. La sola differenza è che uno usa i bombardieri e l’altro utilizza i kamikaze.
Entrambi hanno un nemico comune, un nemico mortale: la libertà. Lo Stato qui schiaccia la libertà per garantire lo sfruttamento capitalista e l’abbrutimento tecnologico. Lo Stato laggiù la schiaccia per imporre la sua legge che considera divina. Nella guerra che si fanno l’un l’altro, a subire le maggiori perdite sono le lotte per la libertà. Qui, come là. E non dimentichiamo che la guerra è letteralmente prodotta anche qui: le industrie di armamenti vanno a pieno regime, i centri di ricerca inventano armi sempre più micidiali e perfide, le imprese della sicurezza conoscono un boom senza precedenti.
Di fronte allo stato d’emergenza, alla guerra che si appresta a divorarci, è ora di uscire dai ranghi. Uscire dai ranghi di ogni potere, si definisca democratico o islamico. Uscire dai ranghi per creare spazi di lotta per la libertà, per non soccombere al fatalismo rassegnato del bagno di sangue.
Il luogo di incontro per i disertori dalle loro guerre e dalla loro pace fatte di sfruttamento feroce, per i ribelli contro ogni potere, è la lotta per la libertà. Una battaglia da condurre oggi con i clandestini contro le frontiere e le deportazioni, con i non sottomessi che lottano contro la costruzione di una maxi-prigione a Bruxelles, con tutti coloro che lottano contro le misure repressive e di austerità (le due facce della stessa medaglia) del governo. È qui che occorre soffiare forte sul fuoco. Perché, mentre lo Stato decreta la mobilitazione totale e ci ingozza con la sua ideologia securitaria, mentre invia il suo braccio armato nelle vie in cui abitiamo, mentre si appresta a soffocare ogni battaglia per la libertà, non si può restare disarmati. Le nostre armi sono quelle della libertà: il coraggio di pensare da soli; la determinazione di sabotare i loro edifici, le caserme, le aziende, le prigioni; la solidarietà fra ribelli.
I tempi a venire saranno difficili e sanguinosi. Ma è nelle tenebre che si riesce a veder ardere più radiosamente i fuochi di libertà, contro ogni Stato e contro ogni potere.
Anarchici


Riceviamo e diffondiamo il testo di uno scritto diffuso a Cremona dopo gli attentati di Bruxelles:
Dacci oggi il nostro panico quotidiano
uno sguardo sui fatti di Bruxelles


«La guerra è uno dei tanti fenomeni, il più grave di questi,
che scaturiscono dal presente ordinamento sociale.
E a noi questo fenomeno non deve riuscire inaspettato
poiché sappiamo che esso non è che il corollario inevitabile di questa civiltà.
Perciò noi non possiamo combattere isolatamente il fenomeno,
senza distruggerne le cause prime che lo hanno provocato»
Bruno Filippi

L’esistente non può ammettere intrusi, dove in uno stato di perenne prigionia sociale ci fa masticare le miserie che produce. Incubati e controllati essa tiene la nostra fantasia in vitreo, puntandoci perennemente delle armi in nome del tutto deve restare così com’è.
Dettando legge, cerca di dirigerci lontano da noi stessi, alza muri per difendere il terrificante diritto di mercificarsi, tenta di correggere ogni nostro desiderio sovversivo e cerca di guidarci come pecore nel gregge.
Il potere è il fine e tutti i difensori del mondo di oggi sono pronti ad usare ogni mezzo per difendere i propri privilegi. Il dominio attraverso la paura fortifica la dipendenza verso di esso e si prende in cambio assoluta obbedienza dai suoi sudditi.
Schiavi del tempo, sembra non esserci rimedio ai continui genocidi perpetrati da questa civiltà. Sangue chiama sangue, ora il sangue è ovunque, recita una canzone ed è quello, sostanzialmente, che la guerra porta con sé.
La guerra non ha confini. L’eterno ritorno della guerra fa sfumare, oggi più che mai, la distinzione fra un fuori e un dentro.
L’era contemporanea dell’idra tecnologica ha oltremodo allargato la guerra a funzione di cosa. L’attacco bellico colpisce la coltre dei luoghi in cui viviamo; ormai l’essere tutti in guerra non è più condizione lontana, ma è la situazione stessa in cui ci si trova.
I fatti di Beirut, Parigi, Raqqa, Ankara e Bruxelles ci dicono che la violenza ritorna, in modo sempre più frequente, al mittente.
Purtroppo non stiamo parlando di violenza che tenta di darsi a qualcosa di totalmente altro, rispondendo alla violenza continua della società.
Oggi siamo davanti a quella forma di violenza gregaria, dove il martirio è l’uscita timorata di qualsiasi invasato religioso, fautore della continuazione di questa società: la presenza dello Stato, che esso sia islamico, democratico o totalitario poco importa, con tutto il suo carico di morte. Ed è per questo fine che chi compie atti come quello di Bruxelles vuole proporre una propria egemonia, vuole unire oppressi e oppressori sotto la bandiera di un forza trascendente, con lo Stato come mezzo organizzatore di questo progetto.
Di conseguenza, questi timorati di Dio non sono nemici degli stati guerrafondai, ma sono nemici mortali di chi vuole sovvertire questa intera società poliziesca.
Esistono delle molteplici differenze per chi aspira alla realizzazione delle propria libertà con quello che sta succedendo. Al lato opposto, non esiste nessuna diversità da chi si fa esplodere in mezzo alla gente per lo stato islamico e chi fa esplodere bombe belliche in nome dello stato democratico, con l’impiego di eserciti e droni. Nessuna differenza con chi crea dei controlli alle frontiere e giganteschi campi di concentramento, chiamati inverosimilmente hot spot, con chi sgombera dei luoghi dove si ammassa quella eccedenza umana indesiderabile come a Calais o attacca militarmente come a Idomeni, con chi installa filo spinato ai confini fra diversi paesi europei e chi pratica espulsioni collettive.
Quando qualsiasi tipo di istituzione piange i massacri da loro stessi creati, la conseguenza è vomito e rabbia per tanta ipocrisia.
È il quotidiano di guerra che si concretizza nei paesi che hanno gonfiato di odio tantissimi individui, attraverso i bombardamenti democratici e l’obbligo alla fuga di milioni persone che scappano da guerre mortali e commercio che sarà sempre predatorio: Bruxelles diventa Gaza, Parigi diventa Kabul, Ankara diventa Baghdad.
Il potere è decentrato, ma il fine è sempre lo stesso: l’economia che si finanzia con la guerra, la guerra che elargisce materialmente e idealmente gli strumenti per sostenere l’economia.
Se il fine, cioè il dominio, è lo stesso fra integralismo religioso e oppressione democratica, la differenza sostanziale sta nell’uso e nell’immagine della morte.
La morte, che da un lato si manifesta palesemente e diviene reale con le immagini delle devastazioni provocate dai padrini del potere oscuro; dall’altra viaggia nelle esistenze dei consumatori omologati alla merce, di chi crepa con o senza lavoro e di chi viene controllato passo dopo passo da qualsiasi sistema di sorveglianza.
Oggi non esiste più un posto neutrale dalla guerra di chi bombarda e massacra in Oriente e di chi aspira al ruolo di dominatore creando terrore nel cuore delle necropoli occidentali.
E i sovversivi, in tutto questo, dove stanno? Come degli appunti in una discussione che non c’è, tutto questo rimanda al pensare per agire.
Chi aspira a farla finita con la guerra e i massacri indiscriminati potrebbe percorrere il sentiero che può spezzare il deja vu continuo del capitalismo: portare il disordine e la sedizione nei luoghi dove la guerra è in atto, cioè in ogni luogo. Per non trovarsi schiacciati fra guerra planetaria e guerra civile, pensare e praticare la diserzione per sabotare qualunque tipo di guerra.
Rovesciare la società tutta, cioè spingersi verso la rivolta per evadere il muro di cinta e trovare la libertà, mettendo in contraddizione le basi dell’edificio sociale e del suo totalitarismo.
Infondo, la vita non può essere qualcosa a cui aggrapparsi ma può divenire l’incendio dei propri desideri.

stampato in proprio: Cremona, fine marzo 2016

Forlì: scritto sui fatti di Parigi

TERRORISTI E TERRORIZZATI
Riflessioni sui fatti di Parigi

Quando succedono cose come quelle successe a Parigi il 13 novembre scorso, sai che il tuo mondo cambierà.
Lo sai non perché tutti i telegiornali improvvisamente parlano di quello, o perché i capi di stato con le loro grasse facce da assassini in giacca-e-cravatta fanno proclami solenni alle nazioni, lo sai perché senti la paura nell’aria.
La paura sembra essere l’ultimo sentimento umano che gli individui riescono ancora a condividere nell’occidente fatto di metropoli e ultratecnologia.
La paura è un modo di governare. Lo sanno bene gli sbirri che minacciano di botte e denunce al primo sussulto di resistenza che incontrano in un controllo documenti per strada.
La paura collettiva, dilagante assume i tratti di un cappio sociale che sovrasta tutti, il cui capo è ben stretto nelle mani dello stato.
Il terrore.
Dopo l’11 settembre 2001 la “guerra al terrorismo” è divenuta la carta bianca dei potenti d’occidente per sottomettere ogni altro da loro sul pianeta terra: il cappio a soffocare tutto, nel silenzio della paura che invoca protezione ad ogni costo.
Però, prima di questo dilagare di terrorismo islamico e contro terrorismo occidentale, il terrorismo in Italia per molti era quello legato allo stragismo di stato.
Piazza fontana (12/12/1969), piazza della loggia, stazione di Bologna, Italicus, uno bianca, Gladio, solo per citare alcuni esempi italiani tragici e famosi.
Ad Ankara, Turchia, il 10 ottobre scorso due bombe fatte esplodere dagli uomini di Erdogan in un corteo per la pace fanno 128 morti (stesso numero di morti di Parigi, ma ben diversa reazione…) la polizia antisommossa, dopo le esplosioni, caricherà il corteo e pesterà nel panico generale i feriti.
Il terrorismo è una pratica vecchia come lo stato: disseminare il panico spargendo sangue e proporsi come garante della sicurezza nazionale. In cambio? Obbedienza.
Il terrore questa volta lo scatenano non gli stati stessi contro i propri sudditi, ma alcuni infuriati che vogliono fare “quello che voi ci fate in Siria”, così come dalle parole di uno degli attentatori del Bataclan.
Per lo stato poco cambia, prende la palla al balzo e legifera sul panico endemico.
L’eccezionale diventa regola
Il clima di terrore oggi per noi occidentali non è più però alimentato dai corpi maciullati per strada, questi li vedono in Siria, in Afghanistan, in Iraq, in Palestina, in Turchia, in Libia, in Libano, Mali (solo per citarne alcuni) tutti paesi dove gli stati occidentali fanno la guerra per garantire la prosecuzione del proprio stile di vita basato sul dominio.
Il nostro clima di terrore quotidiano si alimenta con atrocità virtuali buttate sullo schermo, per questo i morti veri, le pallottole vere (le stesse che produciamo nelle fabbriche europee e poi vengono sparate in medioriente) hanno riacceso i sentimenti veri, facendo tacere anche quel briciolo residuo pacifismo cittadinista che albergava più nei post dei social network che in una reale opposizione.
E su quella paura della società televisiva gli stati impongono per difenderci dall’indifendibile leggi speciali per arginare l’emergenza.
In Francia c’è già il coprifuoco a Sens: se esci per strada dopo le 22:00 ti arrestano.
I protocolli di sicurezza per il Giubileo a Roma hanno dato il via in Italia a quelle che saranno una serie di nuove misure repressive in chiave antiterroristica che nei fatti colpiranno la libertà di ciascunx di noi, sempre e per sempre.
Come per ogni altro caso analogo infatti (vedi patriot act post 11 settembre negli USA o l’operazione strade sicure del 2008 in Italia) l’eccezionalità del momento verrà protratta indefinitamente sotto la minaccia costante del prossimo attacco. Nessuno è al sicuro, più lo si ripete più ci si crede, più ci si crede più si invoca sicurezza. E più sicurezza vuol dire più polizia e militari, ipertecnologia di controllo totale; più sicurezza vuol dire più stato di assedio. Più guerra.
L’emergenza, come la crisi non è più l’eccezione, è la straordinarietà che si impone come prassi in un contesto dove ogni amenità si normalizza nel giro di poche ore. E ci si abitua.
Nel deserto della paura, gli avvoltoi con la bandiera…
La Francia come risposta immediata ai morti di Parigi fa piovere bombe sulla Siria e chiude le frontiere.
Si comporta come uno stato in guerra e dichiara di esserlo: una sincerità eloquente dopo un decennio di massacri per “scopi umanitari”.
Il paese è in guerra, l’unione europea tutta che di quel paese è alleata è in guerra e in guerra devi scegliere da che parte stare.
In questo caso facendo fede alle semplificazioni da derby giornalistico, o stai con l’occidente o stai con l’ISIS.
“Dalla parte dell’Italia” si sente gridare nelle strade dai fascisti e razzisti che stanno montando di arroganza e consensi in tutto lo stivale.
I fascisti del terzo millennio o i leghisti di Salvini che hanno oramai assunto i tratti di un vero e proprio partito ultranazionalista e cristiano-cattolico sono i crociati anti-islam che gettano e getteranno benzina sul fuoco della caccia all’immigrato.
La guerra tra civiltà è in realtà il ben più spicciolo odio razziale xenofobo e la violenza dei servi frustrati scagliata contro i più deboli di loro.
I fascisti innalzano inni patriottici e paventano nuovi forni crematoi, incendi di campi rom e assalti alle moschee, in questo razzismo militante si incanala la rabbia spaventata di quanti, attraverso il fanatismo protettivo della patria si sentono di appartenere a qualcosa.
In guerra si polarizzano e si accentuano le divisioni in chiave dogmatica ed escludente. Il fanatismo made in italy trova nei fascisti dei molteplici schieramenti, partitici e non, un’avanguardia pronta a erigersi guida del popolo, per la salvezza nazionale.
Ovviamente non sono il potere, la ricchezza, la guerra, il colonialismo e il suo sfruttamento che, nella mente del terrorizzato causano il terrorismo, ma la provenienza e il colore della pelle di chi lo esercita.
Non cadere nella trappola
L’ascendente che ha l’ISIS su individui di mezzo mondo non è certo spiegabile coi video su youtube o con la carta del “fanatismo religioso”: lo schierarsi con l’Isis, abbracciando dettami per noi aberranti, ma facendolo di certo con una determinazione fuori dal comune, sembra spiegabile con la ricerca di una pienezza esistenziale che un mondo di cose, falsità e vuoto etico non fa che negare quotidianamente.
Il mondo occidentale nega la vita e la sua passionalità. Le sostituisce con oggetti che puoi produrre e oggetti che devi comprare.
In questo momento storico dove la crisi permanente ci ha abituati alla miseria e alla famelica gara di “tutti i poveri contro tutti gli alti poveri per aspirare al benessere dei ricchi”, ci mancava davvero solo un pretesto imponente per scatenare la guerra sociale, ma non in chiave classista, ma razzista.
Le parole potranno essere passate di moda, ma la realtà è immutata: esistono coloro (sempre di meno) che dominano e coloro (sempre di più) che vengono dominati. Nel mezzo una miriade di schifose strutture e intermediari che fanno in modo che lo status quo non cambi (sbirri, leggi, informazione etc).
Se è vero che gli atti di Parigi hanno scatenato ondate di emotività sepolta, vogliamo far sì che i sentimenti che si esprimono non siano di paura, di diffidenza, di abbandono alle mani dell’autorità o di cattiveria nei confronti del capro espiatorio, ma di solidarietà tra sfruttati contro le guerre dell’occidente, di lucida presa di coscienza che il terrore è la vita a cui l’occidente condanna miliardi di vite ogni giorno, in tutto il mondo.
Per noi non cadere nella trappola è anche, dall’altro lato, non abbracciare la tragica formula del “il nemico del mio nemico è mio amico”, visto che l’ISIS o chi per lui è contro l’imperialismo occidentale.
I nostri nemici hanno nomi, cognomi, sedi e indirizzi, e non sono la gente dello stadio o del teatro, ma capi di stato, militari, industriali…
Non vogliamo relegare a ruolo di vittime inconsapevoli chi in nome di un altro stato, un’altra religione, altro dominio muove una guerra altrettanto sudicia, ben tenendo a mente però che sono la Nato, l’unione europea, le industrie belliche, i governi degli stati occidentali i mandanti della strage di Parigi, coltivando nel cuore di chi hanno sfruttato e bombardato per anni l’odio per tutta la gente di questa parte di mondo.
Contro le guerre dell’occidente in tutto il mondo e contro la guerra tra poveri nei paesi in cui viviamo; contro gli stati e il loro terrorismo, contro i fascisti e la loro propaganda di odio.
Affinché il sogno di un mondo altro non muoia nella miseria esistenziale, nella paura, nelle braci degli ultimi roghi di streghe.
Anarchiche e anarchici

Le loro guerre, i nostri morti
Dopo Parigi, Dopo Bruxelles

Non solo i potenti esportano la loro splendida civiltà bombardando interi paesi per i propri interessi economici e geopolitici, ma per imporre il loro potere si servono di qualsiasi alleato. Per destituire Assad, al fine di avere un controllo diretto sui giacimenti di gas e sui gasdotti, Stati e capitalisti d’Occidente hanno armato e finanziato le forze islamiste, preoccupati che la sollevazione popolare contro il regime siriano li tagliasse fuori dai giochi.
Quella guerra – assieme alle altre – ha provocato un esodo di massa, in parte diretto in Europa. E cosa trovano questi profughi giungendo nell’Eldorado democratico? Barriere, filo spinato, militari, campi d’internamento. Dopo gli attentati di Parigi e di Bruxelles i jihadisti sono diventati il Male assoluto, contro cui dovremmo unirci tutti, poveri e ricchi, oppressori e oppressi. Ci accorgiamo della guerra e delle sue stragi solo quando queste tornano indietro. Intanto l’Unione Europea offre tre miliardi di euro al regime fascista di Erdogan, colluso con l’Isis e massacratore dei resistenti curdi – che alle milizie islamiste si oppongono davvero –, per fermare i profughi sotto il suo tallone di ferro. Intanto, mentre anche il più imbecille dei giornalisti ammette che non c’è controllo militare che possa fermare chi è disposto a farsi esplodere davanti a un ristorante o in una metropolitana, gli Stati ne approfittano per sguinzagliare divise ovunque e approvare in fretta e furia le leggi più liberticide (“terrorista” ormai è chiunque non la pensi come la polizia…).
Intanto, braccata dalla miseria e frustrata da una vita senza prospettive, una parte della gioventù immigrata (e non solo) trova nell’Islam radicale una promessa di redenzione – dopo che ogni ipotesi rivoluzionaria è stata schiacciata dalla repressione e annegata nel conformismo.
Intanto il governo italiano si appresta a intervenire in Libia per difendere gli interessi dell’Eni, aggravando la sorte della popolazione di là e esponendo quella di qua a probabili rappresaglie. Tutti gli Stati (repubbliche, monarchie o califfati) banchettano con la nostra libertà e, all’occorrenza, con le nostre ossa.
Il programma non si cambia: continuare la guerra, militarizzare la società contro la minaccia jihadista e blindare le frontiere… in una spirale assassina e suicida. Per spezzare questo maleficio sociale, occorre innanzitutto sottrarsi alla propaganda e dissociarsi dalle guerre fatte in nome nostro. Abbattere i muri che dividono i popoli (a partire dalla frontiera del Brennero) e sconvolgere la pace sociale che unisce le classi. Ma per far questo non ci servono opinioni vendute all’ingrosso o al dettaglio né passioni striminzite. Ci occorrono l’odio per l’oppressione e l’amore per la libertà.
Ce l’abbiamo? Ce l’avete?
Trento, 29 marzo 2016
Anarchici e Antimilitaristi



La carneficina e il suo mondo


Tratto da finimondo.org
«La lingua è illuminante. A volte, qualcuno cerca di nascondere la verità mediante il parlare. Ma la lingua non mente. A volte qualcuno vuole dire la verità. Ma la lingua è più vera di lui. Non vi è nessun mezzo per combattere la verità del linguaggio.(…) I filologi e i poeti conoscono la natura del linguaggio ma non possono impedire al linguaggio di dire il vero».




Victor Klemperer

Si è detto spesso che la prima vittima delle guerre è il significato delle parole. Nel momento della guerra, ogni parola diventa propaganda, dietro ogni parola si nasconde un appello ben preciso e un effetto ricercato, ogni riflessione mira all’eliminazione del senso critico dell’uomo. Tuttavia, come dice il filosofo tedesco che dal 1933 si era dedicato allo studio della neolingua nazista, la lingua non mente mai: essa esprime una verità, ed esprime, in tutta la sua manipolazione, in tutta la sua deformazione, in tutta la sua strumentalità, la reale essenza del dominio.

Oggi, due giorni dopo gli attentati jihadisti a Bruxelles, si parla di «carneficina». A giusto titolo, certo, ma la definizione si svuota di senso se un altro massacro non viene chiamato «carneficina». Quando il regime di Assad ha lanciato barili di gas nervino sui sobborghi di Ghouta, non si sono viste le varie fabbriche di opinione impiegare la parola «carneficina» per definire il massacro industriale di quasi duemila persone. Quando lo Stato Islamico decapita gli oppositori si parla di «esecuzioni atroci», cosa che quegli atti commessi da uno Stato nel nome dei suoi valori sono in effetti senza il minimo dubbio, mentre gli attacchi di droni che in Pakistan, in Yemen, in Somalia, in Afghanistan e altrove hanno ucciso dal 2006 oltre seimila persone, vengono definiti «colpi chirurgici». Quando centinaia di persone periscono nell’incendio di una fabbrica di abbigliamento in Bangladesh, che produce abiti di marca in vendita ovunque nel mondo, si parla di «tragedia», inducendo il pubblico a credere che si tratti di un incidente e non di una conseguenza ovvia del modo di produzione capitalista, mentre i bombardamenti di città e paesi curdi ad opera dello Stato turco, un alleato dell’Unione Europea e membro della NATO, sono «operazioni di mantenimento dell’ordine». Le parole impiegate, il senso che viene loro attribuito, tradiscono una visione del mondo.

Il sangue che i jihadisti hanno fatto scorrere nella metropolitana di Bruxelles e nell’aeroporto ci ricorda l’accanimento dei jihadisti contro coloro che si sono sollevati al grido di libertà e di dignità negli ultimi anni, in Siria come altrove. Ci ricorda i rivoluzionari rapiti, imprigionati, torturati e massacrati dai jihadisti nelle zone che ormai sono sotto il loro controllo. Ci ricorda il regime atroce e sanguinario che cercano di imporre a tante persone, in Siria e altrove. Ci ricorda che, sul cadavere di una sollevazione liberatrice, la reazione è sempre estrema e spietata. E ribadisce come sarà difficile nei tempi futuri parlare e lottare per la libertà, distinguere chiaramente i nemici della libertà (qualsiasi Stato, qualsiasi autoritario, qualsiasi capo) senza adeguarsi a nessuno di loro nelle guerre che conducono.

Ormai è chiaro a tutti che nessuna misura antiterroristica, nessun battaglione di militari spedito nelle strade delle metropoli, nessuna rete di videosorveglianza, potrà impedire a qualcuno che vuole uccidere quante più persone, e in più rimetterci la vita, di agire e massacrare. Lo Stato è incapace di metter fine alla guerra che, malgrado l’apparenza di Stato «pacifico», fa parte della sua ragione d’essere, essendo la sua ragione d’essere. Fermare la guerra è possibile solo a chi rifiuta ogni guerra. E rifiutare ogni guerra è possibile solo col rifiuto di ogni autorità che vuole, per sua essenza, imporsi (cioè, fare la guerra). Per fare un esempio abbastanza concreto, oggi si parla molto degli «appoggi» di cui beneficerebbero i jihadisti nei quartieri popolari di Bruxelles. Se così fosse, se alcune persone dei quartieri conoscessero chi predica la guerra santa, se qualcuno avesse informazioni sulla preparazione di un massacro nelle strade della città in cui abita, se sapesse chi recluta i giovani senza riferimenti e in preda all’ideologia reazionaria del jihadismo, dovrebbe andarne a parlare alla polizia affinché lo Stato se ne occupi? Quello stesso Stato che lascia annegare migliaia di rifugiati, che partecipa ai bombardamenti in diverse zone del pianeta, che rinchiude e tortura per far regnare il suo ordine, che manovra, alla maniera di dittature come quella di Assad, quegli stessi movimenti jihadisti (da ricordare che la persona che ha organizzato i viaggi, i passaporti, i contatti di decine di giovani partiti per la Siria era… un infiltrato della Polizia Federale)? No. Dovrebbero agire per se stessi. Essi sanno probabilmente meglio di chiunque altro dove e come colpire. Se lo Stato non ci avesse fatto diventare tutti delle pecore, dipendenti e impotenti al punto di non sapere quasi difenderci, saremmo magari più numerosi a metter fine agli intrighi di una corrente jihadista nei quartieri in cui viviamo.

Ma questo ragionamento vale anche per tutti gli altri predicatori di guerra e difensori del cannibalismo capitalista. La continuazione del dominio si consolida sul cadavere della lotta per la libertà. Come vivere pacificamente a due isolati da un ricercatore che progetta nuove armi? Come tollerare senza far nulla un uomo di Stato che mette in atto la politica dei «respingimenti», un’altra di quelle espressioni per non dire «annegamento di massa e deliberato»? Come non spaccare la faccia a chi parla di «libertà» quando vuol dire sfruttamento di miliardi di persone? Ad ogni passo che abbiamo fatto all’indietro — tutti, senza eccezione — la reazione divora ogni volta più spazio in cui lottare per l’emancipazione umana, la libertà degli uomini e la fine dello sfruttamento.

Ci si dirà che oggi bisogna «parlare di religione». D’accordo, ma non solo perché gli autori dei massacri di Bruxelles sono mossi da credenze religiose. Se ne parlerà perché è il jihadismo (l’autorità religiosa), insieme al regime di Assad (l’autorità laica), ad aver massacrato la rivoluzione in Siria. Se ne parlerà non solo nella sua versione islamica, ma anche nella sua versione scientifica e statale. I massacri commessi nel nome di Allah sono ripugnanti come lo sono i massacri commessi nel nome della Scienza, del Progresso e del Denaro. Sono da criticare le religioni, tutte le religioni, perché vogliono imporre una autorità agli individui, perché sono la negazione della libertà. La visione apocalittica dei partigiani dello Stato islamico richiama alla mente il fatto che è da molto tempo che gli Stati si sono attrezzati con strumenti dell’apocalisse (bombe atomiche, centrali nucleari) allo scopo di assicurarsi il loro regno.

La situazione odierna non è senza precedenti nella storia, in ogni caso, per quanto riguarda lo spazio di azione dei rivoluzionari e degli anarchici. Se i primi giorni della Prima Guerra Mondiale avevano fatto svanire le speranze internazionaliste, la sconfitta della rivoluzione sociale in Spagna nel 1936 inaugurava gli anni neri futuri che avrebbero decimato e straziato i rivoluzionari. E la «fine delle ostilità» dichiarata da alcuni protagonisti della lotta armata in Italia negli anni 80 ha concluso, in accordo con lo Stato, gli spazi di sovversione aperti da tanti anni di lotta. E che dire dell’azione dei rivoluzionari nel corso di innumerevoli guerre che hanno lacerato paesi di tutto il mondo? Gli spazi per la sovversione anti-autoritaria si riducono oggi sensibilmente, e in alcuni luoghi è ormai prossima la loro scomparsa pura e semplice. Questa tendenza è doppia: rende particolarmente complicato l’agire sovversivo attraverso l’occupazione repressiva dello spazio da parte dello Stato e sembra rendere incomprensibile questo agire agli occhi degli altri. Il disgusto totale potrebbe allora condurci a rifugiarci in qualche oscura foresta, sperando di poter restare al di fuori e che il rosso del sangue non giunga a macchiare le foglie verdastre. Se una tale foresta esiste, è anche da là che potranno ripartire gli assalti contro questo mondo d’autorità. Prendere coscienza della nostra quasi-scomparsa dal quadro non deve per forza tradursi in abbandono. Può costituire un punto di partenza per moltiplicare, di nuovo, i punti di adunata dei disertori della guerra dei potenti. Invertire la tendenza sarà molto difficile, ciò non toglie che si possa almeno cercare di darsi i mezzi e le capacità per difendersi ed attaccare in quanto rivoluzionari e anarchici, e di trovare ancora dei modi per spezzare la propaganda degli Stati (democratici, islamisti o d’altro genere) che acceca le menti e le sensibilità. Un simile tentativo di rinnovamento dell’anarchismo combattivo necessiterà di una buona dose di coraggio e di audacia, di un’etica non-negoziabile, di una lucidità teorica per quanto riguarda le condizioni dello scontro rivoluzionario. E non dovrebbe rinchiudersi nelle frontiere degli Stati, oltre a rifiutare qualsiasi trincea già scavata, oggi tutte invariabilmente infami.

Affilare la critica dello Stato, di tutti gli Stati (democrazie come califfati), di tutte le autorità, è quanto c’è da fare. E questo in condizioni sempre più sfavorevoli, talmente la prospettiva di una rivoluzione sociale è sospinta ai margini. Ma è anche giunta l’ora di aprire profondi dibattiti su questa prospettiva rivoluzionaria, e sui rivoluzionari che si presume la difendano. Spetta in particolare agli anarchici analizzare le nuove condizioni della lotta anti-autoritaria, prendere atto del fatto che lo Stato non mancherà di provare ad eliminare ogni voce di disturbo e ogni atto di opposizione, interrogarsi sui metodi di intervento e sui progetti di lotta che sono stati sviluppati in questi ultimi anni, riflettere su come porsi in una prospettiva che si proietti negli anni a venire. Rifiutare i campi degli autoritari non può che essere il primo passo.

Alcuni anarchici

24 marzo 2016


Bruxelles: Sotto minaccia





Note su alcune evoluzioni repressive sul terreno della guerra sociale


 Un anno fa…

La direttiva anti-terrorismo emanata dall’Unione Europea per essere accolta nella legislatura dei paesi membri risale già al 2003. È stata prodotta sulla scia delle misure anti-terroristiche e dell’inizio della «war on terror» in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001. All’epoca era stata presentata dai legislatori come una specie di versione light del Patriot Act statunitense. Ma ovviamente non era questo. Nel frattempo, tutti i paesi dell’Unione Europea l’hanno adottata (ad eccezione dei paesi che già disponevano di leggi più dure in materia di terrorismo, come la Spagna). E lo Stato belga figura fra i primi. A mano a mano, nel corso degli anni e dopo diversi tentativi (piuttosto infruttuosi) di utilizzarla soprattutto contro comunisti turchi e comunisti curdi, la legge è stata oggetto di molti adattamenti, col risultato di un progressivo affinamento della definizione di «terrorismo». È inutile dedicare ancora molte parole a tale definizione: potenzialmente può riguardare ogni espressione, ogni atto ed ogni pensiero di critica allo Stato. Semplice. Quindi, questa legge non è certo nuova. Per combattere la sovversione, gli Stati si sono sempre dotati di un ampio armamentario giuridico, a cui in caso di bisogno si aggiungono decreti di eccezione, manovre dei servizi segreti, «guerra sporca» di sterminio.

L’interesse di istituire un armamentario legale specifico contro la sovversione è ovviamente la concessione di maggiori mezzi agli investigatori e ai servizi di sicurezza, oltre ad un notevole aumento delle pene. Un reato commesso nel quadro di una «partecipazione ad attività terroristiche» viene punito più pesantemente rispetto a quanto accade per lo stesso reato commesso in altro ambito. Di nuovo, nulla di cui stupirsi. Lo Stato non ha mai promesso di essere tenero coi suoi nemici.

L’ultimo aggiornamento della legge anti-terrorismo belga, in data 2010, è istruttivo a questo proposito. Sono stati aggiunti i reati «di incitamento a commettere reati terroristici, seguiti o meno da effetti», «il reclutamento a fini terroristici», «l’addestramento in vista di commettere infrazioni terroristiche». Questo può quindi riguardare ogni proposta rivoluzionaria, la messa a disposizione o lo studio di metodi di lotta e di attacco, la diffusione di idee sovversive. Col risultato che almeno due inchieste con simili capi di imputazione prendono oggi di mira alcuni anarchici in Belgio.

Anche il 2015 è stato molto produttivo in materia di nuove misure e nuove leggi. Facciamo una rapida incursione su questo terreno.

Nel gennaio 2015, il governo crea il «Consiglio Nazionale di Sicurezza», una sorta di stato-maggiore della lotta contro il terrorismo. Questo consiglio riunisce il primo ministro, il capo del centro di crisi del ministero degli Interni, della Sicurezza di Stato, della Polizia Federale, dei Servizi Segreti Militari, della Procura Federale e dell’OCAM [Organo di Coordinamento per l’Analisi della Minaccia]. Da notare che questi ultimi due organi sono stati creati appositamente per combattere il terrorismo. La Procura Federale cerca da anni di rendersi autonoma il più possibile dai giudici istruttori, per attribuirsi a poco a poco il diritto di applicare tutte le misure di indagine e di sorveglianza possibili ed immaginabili di propria iniziativa. Non è altro che il braccio della Polizia federale nell’apparato giudiziario. L’OCAM è stato creato nel 2008 e funziona come una sorta di incrocio di tutti i servizi che si occupano di terrorismo. È quest’organo ad emettere i famigerati avvisi di «minaccia». Ma, per non perdere il filo: il Consiglio Nazionale di Sicurezza giocherà nei prossimi anni un ruolo importante nella lotta contro il terrorismo, la minaccia e la sovversione, disponendo di un’autonomia di azione e di decisione mai avuta prima da nessun consiglio, comitato od organo. Da notare inoltre che è stato creato, sebbene ideato molto prima, sulla scia degli attentati contro Charlie Hebdo e un ipermercato kosher a Parigi.

Ma è nell’inverno del 2015 che le cose subiscono una vera accelerazione. In seguito agli attentati di Parigi del novembre 2015, il governo annuncia 18 nuove misure, in parte già approvate e in corso di applicazione. Si tratta in particolare del prolungamento della detenzione giudiziaria per terrorismo da 24 a 72 ore (triplicando il tempo degli inquirenti per tenere un sospetto separato da tutto ed «interrogarlo», a buon intenditore…); dell’estensione di particolari metodi di ricerca (intrusioni nei domicili, installazione di microspie e telecamere, infiltrazione…); dell’integrazione del sistema di riconoscimento delle targhe dei veicoli sulle autostrade e all’ingresso delle città; della creazione di una banca dati dei viaggiatori in aereo, in bus e in treno («PNR»); della legalizzazione del dispiegamento permanente di 520 militari nelle strade; e dello studio di un braccialetto elettronico da imporre a tutte le persone schedate dall’OCAM (si tratterebbe di circa 1000 persone). A fine dicembre, dopo alcune rettifiche alla domanda della Commissione per la protezione della vita privata, il governo ha creato una banca dati centrale dei sospettati di terrorismo, accessibile a tutti i servizi del settore. All’inizio di gennaio 2016, la proposta del prolungamento della detenzione giudiziaria a 72 ore viene allargata a tutte le accuse (e quindi non al solo «terrorismo»), con più garanzie ai poliziotti che indagano sui «dossier pesanti» per preservarne l’anonimato. A fine gennaio, viene mandata alla Camera una proposta di legge per rendere punibile, sempre nell’ambito della legge anti-terrorismo, la «preparazione di un attentato»: l’osservazione di un potenziale obiettivo, lo studio delle vie di fuga, la ricerca di nascondigli, la ricerca di obiettivi. Le pene previste, come per ogni reato nell’ambito dell’anti-terrorismo, vanno dai 5 ai 10 anni di carcere. Questa proposta va di pari passo con un cambiamento nella Costituzione al fine di creare la possibilità per il governo di decretare «lo stato d’assedio», anche al di fuori delle situazioni in cui ciò era già possibile (soprattutto guerra, invasione straniera e insurrezione).
Infine, all’inizio di febbraio, il governo federale ha presentato il suo «piano d’azione contro il terrorismo, il radicalismo e l’estremismo violento», indicando a Bruxelles i comuni di Molenbeek, Saint-Gilles, Saint-Josse, Schaerbeek, Laeken, Anderlecht, Koekelberg e la città fiamminga di Vilvorde. Nell’immediato, 300 poliziotti federali andranno a rafforzare le zone di polizia locali, coi primi 50 sbirri già arrivati a Molenbeek all’indomani dell’annuncio del piano. A medio termine, il piano prevede il reclutamento di 1000 poliziotti supplementari per la Polizia Federale, rinforzi che saranno impiegati principalmente nella lotta contro il radicalismo. La Sicurezza di Stato potrà assumere altri 100 addetti (attualmente sono circa 700). Fondi supplementari anche per la Giustizia. L’obiettivo principale del piano contro il terrorismo — non è inventato — è… il lavoro nero, i documenti falsi, il traffico d’armi, la «frode sociale», l’economia illegale. Una nuova cellula d’ispezione verrà creata allo scopo di effettuare controlli lampo nei comuni citati. Infine, il piano prevede l’interconnessione e l’integrazione di tutte le reti di videosorveglianza in una sola piattaforma accessibile alla Polizia Federale, così come la legalizzazione e la moltiplicazione di telecamere mobili di riconoscimento delle targhe d’immatricolazione, montate sul tetto delle volanti.
Nel mirino
«Ripulirò Molenbeek e sradicherò i problemi. Siamo in guerra»
Jan Jambon, ministro degli Interni, 14 novembre 2015
I primi obiettivi della repressione statale sono da sempre i ceti bassi della popolazione, le «classi pericolose», i poveri e gli esclusi, in breve i proletari. Non è diverso ora che lo Stato pretende che la minaccia più importante sia lo jihadismo, al posto delle correnti rivoluzionarie. Attenzione, abbiamo proprio detto «pretende», perché gli schermi di fumo della propaganda non dovrebbero farci dimenticare che nel mirino c’è sempre (anche) la sovversione, la sovversione che cerca di scuotere le catene dello sfruttamento capitalista e dell’oppressione statale. È difficile qualificare gli jhadisti come «sovversivi» (così come è difficile, se non impossibile, parlarne in termini generali), ma questa corrente contro-rivoluzionaria riesce oggi a reclutare molti proletari arrabbiati. Ciò induce a non considerarli generalmente del tutto estranei o tagliati fuori dalla conflittualità sociale. Che il loro progetto sia oppressivo e autoritario, che i loro metodi di lotta siano in genere altrettanto disgustosi di quelli degli Stati, che i loro obiettivi primari nei moti in cui si ritrovano di fronte a spinte rivoluzionarie (come in Libia, in Egitto o in Siria) siano proprio i sovversivi e i rivoluzionari, non toglie il fatto che per noi, anarchici e rivoluzionari, gli islamisti cerchino di stabilire la propria egemonia sul terreno della guerra sociale fra oppressori e oppressi. Ed è per questo che sono nostri mortali nemici. Per lo Stato, non lo sono. Un’intesa fra Stati e gruppi islamici è stata possibile nel passato e lo sarà anche in futuro. Il parallelo con gli stalinisti e soci non è così difficile da fare.
Sulla scia delle nuove misure del governo, l’obiettivo di quest’ultimo è sempre lo stesso. Ha annunciato controlli casa per casa a Molenbeek (estesi in seguito a tutti i quartieri poveri di Bruxelles), che dopo l’annuncio del piano federale nel febbraio 2016 si sono trasformati in controlli «tecnologici»: con verifica del consumo di energia al fine di determinare il numero di abitanti e di passare a un controllo domiciliare in caso di sospetti. Nella sua spiegazione del legame fra «terrorismo» e «delinquenza», due mondi si incrociano e si aiutano reciprocamente (è possibile, ma non scordiamo nemmeno che lo Stato si è spesso servito di frange del banditismo nell’esecuzione di lavori sporchi per combattere la sovversione, e che ha sempre cercato di gestire la delinquenza al fine di meglio prevenire e controllare ogni escursione verso la rivolta), e annuncia una serie di «piani d’azione» contro il traffico d’armi, il traffico di stupefacenti, gli ambienti di rapinatori e ladri… In Francia lo Stato si è mostrato più esplicito in tale intervento: più di 3000 perquisizioni amministrative (rese legali dallo «stato d’emergenza»), quasi tutte contro persone già note per fatti criminali. E poi ovviamente è il turno di un’altra fascia proletaria, obiettivo preferito dagli Stati: i clandestini e i rifugiati. Rafforzamento dei controlli alle frontiere del Belgio e dell’Unione Europea, creazione di giganteschi campi di concentramento (laconicamente chiamati «hot spot»), sgombero della giungla di Calais, installazione di filo spinato alle frontiere di diversi paesi europei, militarizzazione della politica del «push back» nel Mediterraneo, espulsioni collettive…
Non c’è stato bisogno di attendere poi molto dopo gli attentati di Parigi perché «la minaccia» venisse estesa ben oltre lo jihadismo. Attraverso la stampa, la Sicurezza di Stato belga mette in guardia contro «l’anarchismo violento» che moltiplica i sabotaggi e gli attacchi contro le strutture del dominio sul suolo bega. Durante gli isterici dibattiti in parlamento sul terrorismo, alcuni parlamentari così come i ministri degli Interni e della Giustizia ricordano che ci sono anche «quegli anarchici a minacciare la sicurezza dell’apparato statale». E dietro le quinte della magistratura belga, si prepara un primo processo per «organizzazione terroristica» contro una decina di anarchici e di anti-autoritari.
Alla fine, il rafforzamento securitario che doveva necessariamente accompagnare la ristrutturazione economica e politica in corso allo scopo di stroncare ogni spinta insurrezionale ha subito un’accelerazione a causa della «minaccia terroristica» e di alcuni attentati jihadisti sul suolo europeo. Questi attentati sono piuttosto «deboli», se così si può dire, paragonati a periodi in cui l’Europa ha conosciuto una ondata di forte sovversione, anche armata, come negli anni 70 o 80. Un’ondata interna in seguito alla quale sono entrati in campo anche diversi gruppi e servizi contro-rivoluzionari, distinguendosi in attentati indiscriminati contro treni, ristoranti, bar, metropolitane o aerei. Ma il paragone sembra ormai impossibile. I decenni di cancellazione della memoria storica, l’annullamento dei concetti di «passato» e «avvenire» a vantaggio di un presente eterno e totalitario, la distruzione della capacità critica dell’uomo attraverso, fra l’altro, l’introduzione massiccia della tecnologia e della visione totalitaria del mondo che esprime, ci consegnano con mani e piedi legati alla gestione sempre più militarizzata e totalitaria dei rapporti sociali.
Questa accelerazione nel rafforzamento della capacità repressiva non si esprime soltanto nell’armamentario allargato dell’anti-terrorismo, ma anche nei vasti programmi di controllo quasi totale sui movimenti di persone e i rapporti interpersonali, di costruzione di nuove prigioni e di centri di detenzione un po’ dovunque, di trasformazione delle metropoli in prigioni a cielo aperto. Così si delineano, sempre più rapidamente, i futuri terreni della guerra sociale.
La rete di controllo
«Se sottolineiamo questa evoluzione, non è per semplice curiosità e voglia di comprendere il motivo per cui la conflittualità sociale non segue più oggi il vecchio schema ben ordinato della lotta di classe fra proletariato e borghesia, dei due blocchi ben identificabili che si accapigliano attorno a una fortezza, ma per scoprire snodi di intervento, punti in cui sia possibile attaccare lo sfruttamento, quindi la riproduzione sociale. Snodi che secondo noi sono situati tra l’altro nelle infrastrutture da cui dipendono l’economia ed il potere. Questa infrastruttura decentrata e altamente complessa ha reso possibile le nuove forme di sfruttamento (basti pensare all’attuale necessità di essere raggiungibili in ogni momento attraverso il cellulare, nella logica della flessibilità del lavoro), ed è appunto qui che lo sfruttamento odierno può essere attaccato. I cavi di fibre ottiche, le reti di trasporto, l’alimentazione energetica, le infrastrutture di comunicazione come i ripetitori telefonici: ecco tutto un campo di intervento che per sua natura è incontrollabile, dove non c’è più nessun centro da conquistare o posizione da tenere, dove il decentramento implica per logica una organizzazione decentralizzata, informale, in piccoli gruppi, di attacco»
Alcuni guastatori dell’edificio sociale
Non è questione di indignarsi per il giro di vite in materia di leggi repressive. Non foss’altro perché la rete di controllo di cui dispone il dominio va ben oltre il codice penale, una rete in pieno sviluppo. Analizziamo alcuni assi principali di questa rete.
Controllo sul movimento delle persone
Oggi, in Europa, è diventato non impossibile, ma certo complicato e difficile, spostarsi ancora senza lasciare tracce del proprio passaggio. Le reti di trasporto sono costantemente poste sotto una maggiore sorveglianza, resa possibile e soprattutto fruibile dalle moderne tecnologie. Un programma in grado di riconoscere il volto di un sospetto su migliaia di ore di video delle telecamere di sorveglianza è ben altra cosa di un essere umano costretto a visionare quei video ore ed ore sperando di scoprire sullo schermo il sospetto in questione. Gli assi di trasporto sono in effetti vettori di controllo. Dall’acquisto di un biglietto (sempre più raro poterlo fare in contanti, senza fornire dati personali, senza bisogno del localizzatore incorporato nell’uomo moderno — lo smartphone), al passaggio nelle stazioni e alle fermate, fino agli stessi mezzi di trasporto, quasi sempre dotati di videosorveglianza. Accade lo stesso per gli spostamenti in automobile. All’entrata nelle città e alle frontiere, scanner di targhe avvertono le forze dell’ordine dell’arrivo di una persona sospetta, di un veicolo con targhe rubate, di un evasore di assicurazione. Le nuove automobili sono della generazione «connessa», cioè salvaguardano e condividono permanentemente i dati del percorso, la maniera di guidare e anche le condizioni di salute di autisti e passeggeri. Se in alcune marche di auto l’«eCall», la «scatola nera» per automobili (che registra percorsi e avverte automaticamente i servizi di soccorso in caso di incidente), è già integrata da qualche anno, diventerà obbligatoria per tutti i veicoli nuovi nell’Unione Europea a partire dal 2018. Per ridurre i morti sulla strada, ovviamente. Ma, lo si menzionava già, il controllo per eccellenza sui movimenti delle persone è certo l’apparecchio che la stragrande maggioranza dei nostri contemporanei ha sempre con sé come se si trattasse di un talismano: il cellulare. Tracciabile, e non dispiaccia agli ottimisti, effettivamente tracciato 24 ore su 24, dappertutto e in ogni condizione. Una formidabile mappatura, ormai gestibile grazie ai progressi nei campi di stoccaggio, registrazione e utilizzo dei dati. E per i cattivi: la polizia inglese ha diffuso milioni di volantini dando indicazioni alle persone per «riconoscere possibili terroristi». Il non possesso di un telefonino o un suo utilizzo «anormale» (non ogni venti secondi) sono considerati indicatori di potenziale minaccia.
Il controllo dei movimenti è onnipresente, ma non è impossibile eluderlo. Ed è ancora meno impossibile sabotarlo. Infatti, le mura della cittadella sono quasi invisibili (o più precisamente, interrate ad almeno 60 centimetri di profondità sotto forma di cavi in fibra ottica), ma le sue torri e i suoi bastioni restano facilmente reperibili, come i ripetitori di telefonia e di internet mobile, gli hangar di server, i centri dati… Inoltre, benché dotati di sistemi di alimentazione elettrica di soccorso, tutti gli apparecchi dipendono invariabilmente da una fonte energetica.
Controllo dei rapporti fra le persone
Internet e la comunicazione digitale hanno sostituito la vecchia spia piazzata all’angolo della strada. L’enormità dei dati non è d’altronde utilizzata solo per incolpare dei sospettati e determinarne le frequentazioni e i possibili complici o appoggi, ma anche per prevenire. Tutto uno sviluppo scientifico è oggi reso possibile e progredisce grazie alla disponibilità di questa miriade assicurata (nel presente e nel futuro) di dati. Gli studi sul comportamento umano, il funzionamento del cervello, le reazioni, le emozioni, i modi di rapportarsi… non hanno più bisogno di cavie: i dati necessari alla ricerca sono ormai a disposizione di ogni ricercatore. L’integrazione di questo elemento dello sviluppo tecnologico (i dati informatici massivi) negli altri settori di ricerca (le scienze cognitive, le nanotecnologie, la biologia, l’economia, la psicologia…) procede speditamente e annuncia la scienza integrata del futuro. Interamente a disposizione del dominio.
E per i recalcitranti, lo sviluppo tecnologico facilita enormemente il lavoro alle unità cinofile della polizia. Ascoltare conversazioni e determinare abitudini di vita? Installare qualche microspia in casa. Determinare percorsi e frequentazioni? Cucire un GPS in una scarpa, piazzarlo in macchina o nella bicicletta. Pedinare? Seguire, dal vivo, attraverso l’interconnessione di tutte le telecamere di videosorveglianza la persona in questione (a Bruxelles è stata appena lanciata una piattaforma che consente alla polizia di aver accesso continuo e di orientare tutte le telecamere della città, dei trasporti pubblici, delle stazioni, degli edifici pubblici — e l’intenzione è di integrarvi anche le telecamere private).
Occorrerà molta creatività, inventiva, una maggiore mobilità e probabilmente l’abbandono totale e definitivo di tutti gli apparecchi tecnologici per creare ancora dei «buchi» nella sorveglianza. Nei documenti strategici dei servizi segreti americani si prevede che i «terroristi» ritorneranno ai vecchi metodi di clandestinità e di comunicazione per evitare i radar. Come i loro colleghi della Polizia Federale belga che sottolineano, in un recente rapporto, la necessità di rivalorizzare i vecchi metodi di infiltrazione e di delazione, i servizi americani mettono in guardia da una fiducia troppo assoluta negli strumenti tecnologici.
Controllo del comportamento umano
«Quel che ci si deve chiedere — e solo questo conta — è di chi è la loro [degli autori di fantascienza] fantasia.
E la risposta a tale domanda suona: essi hanno la fantasia dei loro fratelli più potenti, la fantasia di quelli che stanno seduti nei laboratori e nelle officine, ai loro tavoli da progettisti, per preparare il mondo esclusivamente tecnico di dopodomani. Gli autori di fantascienza si nutrono del loro spirito d’invenzione, cioè di quello degli scienziati e degli ingegneri che già oggi sono i padroni del mondo; la loro fantasia è parassitaria, l’attività a cui si dedicano è un furto: insomma essi copiano i blueprints progettati dai loro fratelli e, rivelando alcuni segreti del futuro, li offrono ai contemporanei da consumare come faits accomplis , come monde accompli».
Günther Anders, L’individuo

Istruttivo a questo proposito è il film di fantascienza Minority Report, in cui le macchine possono prevedere e avvertire i poliziotti dell’imminenza di un crimine. Se nel film la previsione dipende ancora dalla trasmissione di dati da parte di esseri umani mutanti (metafora dell’uomo-apparato), la realtà sta per rendere obsoleto quel film. Perché, come si diceva prima, le scienze comportamentali, alimentate dagli altri campi di ricerca e disponendo ormai di una base di dati infinita, accoppiate alla ricerca in neuroscienza e al «brain mapping», avanzano a grandi passi verso la capacità di prevedere il comportamento umano. Prevedere, nel senso che già la sensibilità, l’individualità, l’immaginazione subiscono da decenni feroci attacchi da parte del dominio, che decapita l’essere umano dei suoi desideri, dei capricci, della follia, della sofferenza (quest’ultimo punto può lasciar interdetti, pensando alla profonda tristezza in cui sono sprofondati i nostri contemporanei del mondo occidentale; ma è creando la sindrome generalizzata della «depressione» che il sistema rafforza l’adesione e la dipendenza dalle soluzioni proposte, eliminando la sofferenza «autentica», se così si può dire, a beneficio di un surrogato il cui superamento dipende dall’ausilio di prodotti e mentalità «offerti» dal sistema).

Il controllo del comportamento umano non può comunque privarsi delle istituzioni di coercizione classica (prigioni, campi di detenzione, ospedali psichiatrici,…), e forse non lo potrà mai, ma ciò non impedisce che il dominio faccia profilare all’orizzonte un superamento formidabile: dalla situazione in cui impone ai suoi sudditi i comportamenti da adottare, a una situazione in cui i sudditi interiorizzino, anzi no, chiedano, anzi no, esigano i comportamenti prescritti e utili alla produzione e alla perpetuazione del dominio.

Un impressionante esempio ci viene fornito — e malgrado le apparenze non ci stiamo allontanando dall’oggetto iniziale di questo scritto — dai cambiamenti del comportamento umano, in appena pochi anni, in seguito alla diffusione degli smartphone. La parola espressa non ha più peso (anche solo mettersi d’accordo per un appuntamento) — è la capacità di manipolarla continuamente ad uscirne vincente e a determinare i rapporti umani. Gli oggetti di un’intera storia di letteratura, di musica, di poesia, d’arte, di costumi, di scherzi, come ad esempio l’incontro ormai gestito dalle applicazioni, facilitano queste storie sempre complicate e ambigue. Ovunque, al lavoro, in metropolitana, a scuola, nella propria stanza, a tavola, nella foresta, non si è più veramente , si è assai più nel mondo dello schermo tattile. Questo cambiamento comportamentale in seguito alla generalizzazione di un apparecchio è intrinsecamente repressivo, non foss’altro perché permette un controllo in diretta, seguito e conservato, di tutto ciò che si «fa», di ciò che si «ama», di ciò che si «vuole» e di ciò che si «pensa». L’utilizzo delle virgolette è necessario, poiché per fare, amare, volere e pensare, bisogna disporre di una individualità, una caratteristica ormai quasi estinta. Se si crede che i nostri contemporanei siano teleguidati perché la pubblicità si adegua ai dati che essi forniscono di continuo, si è lungi dal comprendere l’ampiezza di questo progetto del potere. La vendita di merci attraverso una pubblicità «individualizzata» (ancora queste necessarie virgolette) è solo un beneficio conseguente: il progetto reale è il controllo del comportamento umano in funzione delle necessità del dominio.

Minority Report lasciava ancora immaginare che le passioni umane esistano ed agiscano. L’aspetto fantascientifico consisteva nel fatto che la passione che portava alla trasgressione e al crimine potesse essere prevista. L’attuale progetto del potere è più ambizioso: eliminare la passione in tutte le sue forme per sostituirla con un surrogato gestito attraverso gli apparecchi intelligenti, diretti e adattati dai progressi delle scienze comportamentali, cognitive e biologiche.

E allora?

«Un altro esempio di tale chiusura sul terreno dello Stato è la polarizzazione su certi tipi di procedure (come l’anti-terrorismo) considerate delle eccezioni, il che equivale a riconoscere, magari indirettamente, la legge, la giustizia e l’ordine «normale» che le sottende. In questa logica non sorprende che vengano utilizzati i classici mediatori istituzionali (partiti, sindacati, media…) per rivolgersi allo Stato, affinché quest’ultimo, messo davanti alle proprie responsabilità, si presume corregga i suoi abusi o gli errori dei suoi servitori. Tutto avviene quindi come se, in nome dell’urgenza e di una certa «gravità della situazione», si potesse di colpo sbarazzarsi della questione del funzionamento di questo sistema, mettere in primo piano le libertà formali che dovrebbero essere garantite, fare leva sull’indignazione ovvero sul recupero cittadinista, pronti a riabilitare di fatto l’idea di democrazia, di delega e di rappresentazione».

Subversions, La repressione e il suo piccolo mondo

Di fronte all’evoluzione del dominio, gli autori di sinistra si indignano. Una deriva totalitaria. L’eliminazione della sfera privata. La sospensione dei diritti fondamentali. Lo stato d’eccezione. Se alla fine del XIX secolo le leggi instaurate in Francia per reprimere il movimento anarchico sono comunemente conosciute come «leggi scellerate», ciò comporta appunto che esistano leggi che non sono «scellerate». La maggior parte degli anarchici dell’epoca hanno adottato questa definizione, anche se nei loro cuori e nelle loro menti hanno sempre ritenuto che, per dirla con Albert Libertad, «tutte le leggi sono scellerate». Ma quando lo Stato dà un giro di vite, è facile crogiolarsi in un sentimento di nostalgia pur inappropriato.

È esattamente questo, e il sostegno ricercato fra gli universitari e gli intellettuali di sinistra sempre ossessionati dall’idea di uno Stato giusto ed egualitario, a disarmarci davanti ai progressi del dominio. Comprendere l’avanzare del nemico è importante, analizzare le sue ipotesi di lavoro è un compito non trascurabile, conoscere e studiare le sue strutture, i suoi uomini, i suoi nodi è essenziale, eludere la sorveglianza con la creatività clandestina è vitale. Ma tutto ciò non servirebbe a nulla se nei nostri cuori non avessimo l’idea dell’anarchia, della libertà, della distruzione dello Stato, ma solo un’indignazione di fronte alle «derive totalitarie» e all’«eccezione diventata modo di gestione». Perché allora, presto o tardi, attraverso la fatica o la promessa, si troverà pur una maniera per adeguarsi al mondo, per gettare le nostre carte sul tavolo e accettare la vittoria del nostro nemico, per giungere a un accordo con questo mondo che ci consenta di «vivere» un poco, di «respirare» un poco. E far scorrere i nostri giorni nell’ignoranza intenzionale, nella rinuncia di noi stessi, nell’attesa nostalgica.

E quindi? Siamo pronti ad affrontare il mostro, crediamo davvero che ciò sia possibile, siamo certi che la vera gioia risieda nel combattere questo mondo, nella libertà della lotta? Alla retorica guerriera dello Stato risponderemo con una vuota retorica guerriera dell’anarchia? O prenderemo le cose un po’ più sul serio, fra la leggerezza e il rigore? È il momento di fare qualche scelta, e di essere consapevoli che i rischi sostenuti sono grandi, ma che il vero rischio è veder spegnersi la fiamma nei nostri cuori. «In questo scivolamento collettivo verso una condizione di sicurezza nel terrore, chi farà scattare il coltello a serramanico?»

[Bruxelles, Febbraio 2016]


Sui fatti di Parigi: E’ troppo tardi per l’ipocrisia



E’ troppo tardi per l’ipocrisia A proposito dei fatti di Parigi



“Gli oppressori e i soverchiatori sono responsabili non solo del male che infliggono agli oppressi e ai soverchiati, ma anche dell’odio che infondono nei loro cuori”. A. Manzoni, I promessi sposi

Si potrebbe sintetizzare così, con le parole del tutt’altro che rivoluzionario Manzoni, il nostro giudizio sui tragici fatti di Parigi.
Ragazzi nati e cresciuti nelle periferie che forse, fino a qualche anno fa, non avevano mai letto le sure del Corano, sono disposti a darsi e a dare la morte per un nuovo Califfato islamico. La categoria del “fanatismo religioso” da sola non spiega davvero nulla.
La spiegazione di una violenza furiosa e indiscriminata non va cercata nel Cielo delle promesse, ma sulla Terra delle umiliazioni.
Nell’introduzione a Per una critica della filosofia del Diritto di Hegel (1844), il giovane Marx definiva la religione “oppio dei popoli”. Si tratta di una formula tanto celebre quanto travisata. Se la si colloca nel suo contesto, quella frase non allude, come generalmente si pensa, all’illusorietà allucinatoria della religione (l’oppio, appunto) cui contrapporre la forza rischiaratrice della Ragione. Scrive Marx: “La miseria religiosa è allo stesso tempo l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura stremata, l’anima di un mondo senza cuore, lo spirito di uno stato di cose in cui non v’è traccia di spirito. Essa è l’oppio dei popoli”. L’oppio è sì ciò che illude, ma anche ciò che lenisce le ferite. Si tratta di una spiegazione materialistica, che non separa i sentimenti dalle condizioni di vita. Per questo, secondo il giovane Marx, “la critica della religione contiene in germe la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola“.
Ben difficilmente si può immaginare qualcosa di più opposto e lontano dagli ideali anarchici e libertari del fanatismo religioso (di qualsiasi colore esso sia). Resta il fatto che serve a poco condannare l’aureola religiosa, per quanto ripugnante possa essere, se non si riconosce e si combatte la valle di lacrime da cui s’innalza.
Bastano i brandelli delle biografie degli attentatori di Parigi riportati sui giornali a farci capire dove nasce l’oppio. Cantanti hip-hop, ragazzi di origine algerina, proletari che hanno conosciuto il carcere per spaccio o rapina. Uno di loro, tempo fa, rispondeva ad un giornalista, poco prima di venire ucciso dalla polizia: “Abbiamo un codice d’onore, noi!”, scandendo la frase con il tipico accento del banlieuesard. L’Islam radicale riesce oggi ad essere questo: una comunità universale, un’occasione di riscatto, un codice d’onore. Chi fino a ieri diceva nique la police (“fotti gli sbirri”), dice oggi nique les blasphèmes (“fotti i blasfemi”). In chi parte per la Siria, in chi uccide e si uccide nelle strade di Parigi troviamo una tensione morale e una disponibilità al martirio paragonabili a quelle del cristianesimo millenarista (“Che la spada di Cristo si abbatta sui ricchi e sugl’empi”), ma senza gli stessi ideali di emancipazione.
Piuttosto che cadere nelle mani del nemico, questi ragazzi si fanno esplodere. Hanno una determinazione  avvicinabile a quella di certi guerriglieri, ma il loro odio non distingue tra sfruttatori e sfruttati, tra gente comune e capi di Stato. Si tratta della parodia assassina della violenza liberatrice. Che simili coscienze siano state prodotte da trent’anni di assenza di un movimento rivoluzionario internazionale non è forse un caso. C’è stata un’epoca lontana in cui persino certi giornali anarchici s’intitolavano “Fede!”. C’è stata un’epoca vicina in cui migliaia di giovani si giocavano tutto per la rivoluzione. Epoche in cui essere compagni aveva un senso preciso, non rinviabile. Tanti dannati della Terra potrebbero dirci oggi: “Abbiamo messo sul piatto della bilancia la vostra determinazione a combattere l’ingiustizia, rivoluzionari d’Occidente, e l’abbiamo trovata assai leggera”. E per questi dannati della Terra, in diverse zone del mondo, la “guerra all’Occidente” condotta dall’Islam militante è una credibile alternativa ideale e materiale all’orrore quotidiano.
Solo la violenza rivoluzionaria, opposta nei fini, nei metodi, nei sentimenti alla guerra tra i sacerdoti del profitto e i soldati di Allah, può trasmutare in pratiche di rivolta e di libertà quella rabbia e quella disponibilità al rischio che covano e crescono.
Solo un movimento rivoluzionario potrebbe scrivere oggi questa “sura” sui muri del mondo: “Siate virtuosi nella giustizia che non è, ma che deve essere. Discernete, nelle spirali dell’odio, oppressori e oppressi, regnanti e sudditi. Non siate avari di collera, non siate ciechi nel coraggio”.
Sempre a proposito di religione, sarà il caso di spendere due parole, infine, sulla dichiarazione di Bergoglio: “Uccidere in nome di Dio è una bestemmia”. Il gesuita Bergoglio, che era vescovo di Buenos Aires quando la dittatura cattolica di Vileda uccideva e faceva scomparire migliaia di oppositori del regime argentino, non è certo nella miglior posizione per lanciare anatemi pacifisti. Messo sul trono di Pietro proprio per contrastare, con le chiacchiere in difesa della natura e dei poveri, la concorrenza mondiale esercitata dall’Islam e dalle Chiese evangeliche, rappresenta un’istituzione la cui storia è un’enorme, ininterrotta bestemmia. Senza contare che George Bush padre, prima di bombardare l’Iraq nel 1991, aveva annunciato in televisione che le bombe a stelle e strisce avevano la protezione di Dio.
Non è certo la democrazia a poter distribuire certificati di buona condotta.
Dal 1991 le truppe occidentali – comprese quelle italiane – hanno esportato la loro splendida civiltà del dialogo e della pace a suon di bombe e di massacri. Stragi come quella di Parigi sono state e sono quasi quotidiane in Iraq, Afghanistan, Palestina, Siria, Libano, Mali, Libia, Somalia… Non più di due mesi fa, in una piazza di Ankara, lo stesso numero di persone morte a Parigi è saltato in aria per una bomba messa dal governo turco di Erdogan contro l’opposizione curda. Basta confrontare la diversa reazione di istituzioni, media e opinione pubblica occidentali di fronte alle due stragi per cogliere tutta l’ipocrisia delle lacrime di Stato e del “siamo tutti francesi”. Evidentemente, i morti occidentali pesano infinitamente di più di tutti gli altri.
A parte i finanziamenti diretti della Cia ai gruppi islamisti per destituire questo o quel governo, è la guerra permanente scatenata dal capitalismo per accaparrarsi le risorse energetiche e spartirsi le zone di influenza mondiale ad aver apparecchiato le condizioni ideali per l’ISIS. I massacri di Gaza e di Falluja hanno fatto da soli la più potente propaganda anti-occidentale che si possa immaginare. Come diceva qualcuno, è troppo tardi per i discorsi da maestri di scuola impartiti a un’umanità per tre quarti annegata. La violenza indiscriminata non abbiamo voluto vederla, perché era lontana. Abbiamo vissuto come se nulla fosse, e sorprendersi ora è solo ipocrisia.

Siamo in guerra. “Noi vi facciamo qui quello che voi ci fate in Siria”: sembrano queste le parole urlate durante la sparatoria al Bataclan.
La logica del “siamo tutti francesi” è proprio quella che nutre la guerra globale (e dunque l’ISIS). Riflettiamoci. Se si considera legittimo bombardare case e ospedali in Iraq, in Afghanistan o in Siria con il pretesto di colpire questo o quel tiranno locale, perché non si dovrebbe considerare legittimo colpire a caso dei francesi per la politica imperialista di Hollande e delle multinazionali di cui serve gli interessi? Se sono terroristi gli attentatori parigini, non sono forse infinitamente più terroristi i militari della NATO? E’ poi più vigliacco farsi esplodere in strada oppure sganciare bombe dall’alto di un aereo?

La guerra della civiltà contro la barbarie è una menzogna. Tra l’altro, a combattere l’ISIS senza violenza indiscriminata contro la popolazione civile sono le guerrigliere e i guerriglieri curdi. Ma siccome vogliono anche autorganizzare territorio, risorse e società, le loro basi vengono bombardate da Erdogan con il sostegno di tutti i capitalisti del mondo: meglio il rischio del Califfato a quello della rivoluzione sociale, di cui un popolo in armi rappresenta una pericolosa premessa. Per questo i militanti dell’ISIS hanno continuato a passare indisturbati, con armi e fuoristrada, i confini turchi proprio mentre infuriava la strenua resistenza di Kobane.
Siamo in guerra. Lo stato d’emergenza dichiarato in Francia è lo stesso che è stato decretato durante le sommosse nelle periferie del 2005, lo stesso applicato nell’Algeria coloniale. Si chiudono le frontiere. Spuntano uniformi ovunque. Si vietano le manifestazioni degli immigrati. Mancano solo i campi di internamento. E già militari in passamontagna stanno pattugliando le strade di alcune città italiane.
Non facciamoci illusioni. Non esiste controllo poliziesco e militare che possa metterci al riparo dal gesto più tremendo e più facile: colpire nel mucchio. Chi pensa di potere barattare le sue già magre libertà in cambio della sicurezza promessa dallo Stato, perderà le prime e non otterrà la seconda.
La “risposta agli attacchi di Parigi” invocata dal governo francese e accolta dagli altri Stati non si limita all’immediata intensificazione dei bombardamenti in Siria. In linea con le direttive contenute nel Rapporto della NATO Operazioni urbane nell’anno 2020, essa mira anche e soprattutto al fronte interno, presentando e reprimendo come “quinta colonna dei terroristi” chiunque metta in discussione la guerra della civiltà. Mass-media-polizia-esercito: assuefare e mobilitare gli animi a difesa dell’ordine; controllare, isolare e punire chi non risponde all’appello – a scuola, al lavoro, nei commenti sui “social network”. Basta che un ragazzino si sottragga al minuto di silenzio in classe per essere denunciato assieme ai genitori. Basta che un immigrato scriva su Internet “capisco anche se non giustifico i fatti di Parigi” per venir espulso senza tanti complimenti. E siamo solo agli inizi.
L’onda emotiva suscitata dai morti di Parigi contribuirà a polarizzare la società, agglutinando e rafforzando le tendenze fasciste e reazionarie. Alle sparate di una Marine Le Pen o di un Salvini, corrispondono le azioni squadristiche dei gruppi neofascisti. Solo negli ultimi mesi sono stati circa trecento gli attacchi incendiari contro centri e case di profughi e immigrati avvenuti in Germania. Occorre prepararsi.
Chi vuole compattare popolo e istituzioni (“siamo tutti francesi”) dà ragione alla guerra globale, e dunque anche all’ISIS.
Siamo stati silenti e complici per tanto, troppo tempo.
Tempo in cui milioni di cuori si sono gonfiati di odio.
Tempo in cui siamo diventati tutti potenziali obiettivi di guerra.

La strada da imboccare è tutt’altra: dissociarci dalle politiche di rapina e di morte perpetrate in nome nostro; dimostrare praticamente che Renzi, Hollande, Obama, Merkel ecc. non ci rappresentano affatto. Che i primi responsabili di una guerra che ci sta ritornando indietro sono proprio loro. Loro e tutta la classe dominante.
Dai luoghi in cui è già in corso una lotta contro la guerra e le sue basi, ai conflitti che rompono qua e là la pace sociale, che le iniziative e le azioni si moltiplichino e, là dove possibile, convergano.
Dobbiamo scegliere il nostro campo, con convinzione e coraggio.
Né con la loro guerra, né con la loro pace.

Disertiamo il fronte occidentale!
Nessuna guerra fra i popoli, nessuna pace fra le classi!
Fuori le truppe NATO!


Trento, 20 novembre 2015
anarchici e antimilitaristi

Valpellice - Manifesto anarchico contro la guerra in Libia

Riportiamo il testo di un manifesto anarchico diffuso in Valpellice (Piemonte):

Nelle ultime settimane una serie di rivolte ha scosso i paesi del Nord Africa. Fuochi di rivolta si sono accesi, creando un effetto a catena, coinvolgendo più paesi. Popoli da anni "abituati" ad obbedire a spietati dittatori hanno trovato la forza per ribellarsi, gridando che rovesciare i tiranni è possibile.
Una lezione molto importante, soprattutto per noi "occidentali" che quotidianamente manteniamo inalterato il dominio dei potenti su di noi, rimanendo in silenzio mentre decidono cosa fare delle nostre vite.
L’emblematico caso della Libia ci aiuta a cogliere l’ipocrisia del nostro e di altri governi. Per anni, paesi cosiddetti “civili” hanno stretto alleanze con i sanguinosi dittatori di turno, assicurandosi così libero accesso ad importanti fonti energetiche e grandi guadagni. Per anni Gheddafi è stato compagno di merende degli stessi capi di stato che ora lo combattono. Il nostro paese in primis ha fatto grandi affari con il colonnello libico, vendendogli armi (quelle stesse armi che hanno ucciso per giorni chiunque osasse opporsi alla brutalità dell’ordine prestabilito), ha stipulato accordi infami che condannano a morire in una striscia di deserto gli immigrati che scappano dal loro paese in cerca di un futuro dignitoso, tutto con il tacito consenso della comunità internazionale. L’Italia ha interessi in Libia non solo per quanto riguarda il settore dell’energia, ma più in generale, in tutti i settori dell’economia e le principali aziende nostrane sono coinvolte fino al collo, in primis: Eni, Finmeccanica, Edison, Telecom e tante altre. Compagnie che approfittano dell’instabilità politica e della mancanza di diritti a tutela degli abitanti di quei luoghi, sfruttando fino all’ultimo persone e natura, non preoccupandosi di creare miseria ed irreversibili devastazioni ambientali. Ora che questi fruttuosi accordi vacillano le grandi potenze si preparano alla solita guerra, dicendo che lo fanno per esportare la democrazia e la libertà, mentre invece si tratta di volersi assicurare egemonia totale su tutte le risorse presenti. È notevole lo sforzo che fanno questi capi di stato e queste multinazionali per costruirsi un immagine che nasconda la loro vera essenza: quella di spietati assassini. Nel grande circo politico italiano nessuno si affatica a denunciare questi fatti, tutti impegnati come sono a fomentare la guerra tra poveri mettendoci l’uno contro l’altro(la regola “Divide et Impera” funziona ancora oggi sin dall’antico impero romano) spaccando tra di loro i lavoratori, mettendo italiani contro immigrati etc. Tutti impegnati a farci credere che il nemico sia il nostro vicino, quando invece è lo stato che ci opprime e ci incatena.

Solidarietà ai paesi arabi in rivolta!                                                       
Contro ogni esercito e contro ogni confine!
Nostra patria il mondo intero, nostra legge la Libertà!!!

                                                                               

                                                                              Individualità Anarchiche Val Pellice - 2011

GUERRA ALLA GUERRA! di Pietro Gori


Questa conferenza fu tenuta a Genova, nel Politeama Alfieri, il 18 ottobre 1903, fu pubblicata nel supplemento letterario del giornale «La Pace» di quella città.
Cittadini!
Mentre sotto il bacio mite e paterno del sole galoppano i cavalieri scintillanti di armi e l’infanteria sfila sotto il cielo di Parigi che vide il 18 brumaio (1) ; mentre in Genova operaia da ogni città d’Italia i cooperatori si sono riuniti in un convegno, dove sorride la poesia possente d’un avvenire più giusto e più fulgido, – si è voluto invitare questo stanco milite perduto, questa umi­le sentinella la cui bandiera è di continuo oltraggiata, a parlare di pace, mentre ancora nell’aria si sente l’odore della polvere e la eco della mitraglia dell’ultima lotta degli operai liguri in questa guerra, che è palingenesi e rivoluzione, in questa che è la guerra giusta d’ogni giorno in pro’ degli umili e degli sfruttati contro le forze strapotenti dell’opprimenti capitalismo.
Certo, bisgno che noi dichiariamo d’essere contrari a tutte le guerre ingiuste; per distinguerle dalle guerre giuste; poi­ché ci sono anche guerre giuste, e sono quelle che esercitano una legittima difesa delle vittime contro lo sfruttamento e la vio­lenza, quelle, in una parola, combattute contro la guerra. Ma il nostro, di cui siamo militi, è un ben altro esercito, non quello delle armi e dei galloni, e nessuno di noi si vanta di ricordi aviti di violenza guerresca, per quanto io che vi parlo e tento di sferzare col knut del sentimento gli animi vostri per il grido di protesta e la maledizione feconda, sia stato allevato in una culla da cui udivo le marce e gli inni militari rievocari dalla voce dell’avo ricordante i personali ricordi della grande epopea napoleo­nica, e m’abbia accarezzato l’orecchio traverso altri racconti l’eco del rimbombo dei cannoni in mezzo al quale mio padre arti­gliere aveva combattuto per il sogno della libertà patria.
* * *
Vediamo di accennare di volo alla genesi della guerra.
Questa non è, in fondo, che lo spirito, o megli l’esplicarsi delle tendenze belluine delle genti primitive, che sentono più prepotente il bisogno di menar le mani. Chi non ricorda, nel Lavoro di Zola, la scena dei bambini che si prendono a sassate, di simili alla quale noi pure nei primi anni infantili ne abbiamo presenziate, spesso prendendovi parte attiva, le quali riproducono in miniatura e rappresentano le lotte dell’umanità infantile, – gli instinti del fanciullo si assomigliano molto, come si sa, a quelli del selvaggio primitivo, e mostrano fedelmente il processo di ontogenesi della psicologia militarista?
La guerra, questa rissa in grande, non dovrebbe destare meno orrore, in noi, d’una zuffa sanguinosa a coltellate, cui per caso coi trovassimo ad assistere in qualche angolo buio delle nostre città, combattuta fra i peggiori elementi che questa società cannibalesca sappia allevare alla triste odissea del delitto, della degenerazione, degli ergastoli e dei patiboli.
Un consorzio civile che abbia già valicato il termine della preistoria, e d’altra parte non sia degenerato sotto il peso dell’ingiustizia e della prepotenza, dovrebbe aborrire la guerra come l’uomo adulto si guarderebbe bene dall’organizzare le sas­saiuole che lo appassionavano da fanciullo.
La tendenza infantile dell’umanità dovrebbe a quest’ora, perciò, aver compiuta la sua evoluzione, essersi esaurita tra­verso l’esperienza storica; e, come i fanciulli dopo la lotta si rconciliano, per prendere tutti insieme a sassate i lampioni della strada e gli alberi del frutteto, così la tendenza istintiva dell’uomo alla guerra per la guerra dovrà un giorno assumere in seno alla società moderna una forma più civile. Non sarà più guerra sanguinosa fra uomini ed uomini, ma guerra, sia pur difficile ed aspra, eppur meno dolorosa, di tutti gli uomini riconciliati contro le difficoltà della vita, per strappare alla natura in maggior copia i segreti del benessere e del godimento comune. Intanto per giungere a questo stadio di evoluzione, sia oggi almeno la guerra una guerra utile, e serva a sgretolare, rovesciare, sovvertire quanto v’è di triste fra noi, per ricostruire domani la società fraterna dei liberi ed uguali.
Sia essa insomma la grande forza rivoluzionaria che farà leva al mondo, quella che Victor Hugo chiamò guerra giusta per l’uguaglianza e per la libertà – la guerra al regno della guerra.
Vinsero nella storia due tipi di eroi; il cavaliere Baiardo senza macchia senza paura, che compiva le sue gesta in un tempo in cui i cavalieri sapevano andare, per lo meno, a cavallo; ed il Lohengrin, la grande nordica del rivoluzionario dell’arte Wagner. Ambedue rappresentano una forma simpatica, apprezzabile di coraggio.
Però il loro coraggio era apprezzabile in rapporto ai tempi in cui quei due eroi vivevano, i quali, allora, per il periodo di evoluzione e l’ambiente in cui vivevano potevano essere considerati un indice di progresso. Così la cavalleria come istituzio­ne, che oggi sarebbe un non senso e i cui rimasugli ci appaiano quali rimasugli di barbarie, nel medio-evo rappresentava uno stadio di civiltà superiore al precedente, poiché nelle contese guerresche collettive ed individuali e nei rapporti con la donna essa mise una nota di mitezza e di gentilezza, una attenuazione per quanro leggera della violenza.
Così si afferma la definizione delle varie forme di coraggio. La storia ed il coraggio devono essere messi a raffronto con l’utilità sociale, e quanto più il confronto riesce a vantaggio di questa, tanto più il militarismo professionale, che nel corag­gio per il coraggio fa risiedere ogni gloria ed ogni nobile manifestazione dell’attività umana, resta nesorabilmente condannato.
La natura, osserva appunta il Liell, ha dato gli uncini e le zanne a quella specie di animali per i quali la violenza e la rapina è una necessità vitale; ma l’uomo moderno, che ha la ragione, formidabile forza prometeiana (come cantò Shelley), che aggioga il fulmine e conquista a suo beneficio l’elettricità, che vince il tempo e lo spazio, l’uomo deve insomma sostituire que­sta sublime forza della ragione – sia pure ancora relativamente embrionale – alla zanna, all’artiglio della belva.
Quest’ordine di idee in modo assai nitido illustrò Guglielmo Ferrero nel suo libro sul Militarismo, e ultimamente nei due volumi di critica ricostruttiva della storia di Roma antica, i quali sono lo svolgimento e l’applicazione al caso specifico del­le teorie svolte nel primo libro.
Il popolo romano che esercitò le zanne e l’artiglio della belva assai più del cervello umano, doveva fatalmente correre verso la sua dissoluzione. La sua forza a lungo andare si esaurì, e prima le mollezze e la voluttà più materiali e quindi l’invasio­ne delle giovani energie dei popolo vergini del settentrione lo ferirono a morte. Doveva il cristianesimo infine salvare appena le apparenze, accumunando in una setta mistica, e curvandoli dinanzi al prete di Roma, vinti e vincitori – un’latra vittoria ancora dello spirito sulla materia, dell’intelligenza per quanto pervertita, sulla violenza bruta.
E non è male rammentare tutto ciò che ebbe Roma di più fulgido nell’arte, nella letteratura e nel pensiero fu importa­zione della Grecia, la prima vincitrice morale del colosso dai piedi d’argilla, che non aveva altro sostegno che la punta delle daghe delle legioni romane. Così il poeta latino senza scrupoli poteva cantare: Graecia capta ferum victorem coepit, et artes intulit agresti Latio.
Nonostante tutto ciò, bisogna confessare che in noi è ancora ben radicato il sentimento militarista; non ne è forse una prova il bisogno di ammirazione espansiva, che quasi tutti noi sentiamo, ogni qual volta un battaglione di soldati sfila dinanzi ai nostri occhi, con tutte le pose marziali delle comparse nella sfilata dei soldati di Radamès, nell’Aida, quando le schiere si rin­novano dietro le scene e per più volte gli stessi visi passano e ripassano dinanzi agli occhi ammirati dell’ingenuo spettatore?
Rivolgiamo ora a noi stessi una domanda semplice, ma pure molto importante, e tentiamo un po’, di grazia, di darle una risposta.
«L’umanità nell’esplicarsi normale della vita quotidiana ha bisogno più del valore militare o del valore civile?»
La risposta non può essere dubbia. Il coraggio moderno è il coraggio civile, il quale è divenuto un bisogno nuovo dell’umanità e batte perfino alle porte gemmate dei principi, che avendo dietro di sé un passato tutto intessuto di glorie militare­sche, cercano anche essi la luce nuova, una luce ancor più fluida, qual’è quella del valore in pro’ della scienza e dell’umanità, con cui desiderano verniciare a nuovo gli stemmi che han perduto l’oro primitivo fatto di lutti e di lacrime.
Non discutiamo ora i moventi, né la misura delle singole imprese; ma chi oserebbe in ogni modo oggidì paragonare il Duca degli Abruzzi al Conte Verde o al Conte Rosso, senza concedere al primo la palma della vittoria del confronto?
Del resto la medesima evoluzione storica del concetto di patria – a cui i militaristi pur anco si riferiscono per trovare una ragione d’essere dei loro cannoni e delle loro sciabole – mostra come l’umanità cammini rapidamente verso la fine di tutte le guerre.
Quando ci si chiama senza patria sol perché vogliamo amarle tutte le patrie e in nessuna terra vogliamo che il nostro fratello di fatica e di dolore, la nostra sorella d’amore e di lotta, e nessuno insomma possa chiamarci stranieri; quando si crede vilipenderci con questo nomignolo dispregiativo, che pure significa un’altra sorgente di odio inaridita nel nostro cuore e nel cuore di tutti, e significa all’odio sostituito il fraterno aiuto di tutti contro le necessità e le difficoltà naturali dell’esistenza – ci si rende maggior onore a cui possiamo ardire: onore superbo che ci gloriamo di avere comune con Socrate e con Cristo, con Di­derot e Mario Pagano con Garibaldi e con Pisacane, con Zola e con Tolstoj.
Questo concetto è fatto completamente d’un pensiero d’amore e di fratellanza per il genere umano.
Un tempo, nelle epoche primordiali della società, l’uomo isolato lottava contro l’uomo. Erano le forme più brutali della lotta per la vita, il cannibalismo e l’antropofagia formavano uno dei canoni del diritto guerresco. Nessuna solidarietà, nessun vincolo d’amore stringeva l’individuo, allora nomade selvaggio, agli altri suoi simili.
Ma l’individuo isolato dovette accorgersi e comprendere come, unito ad altri individui, egli avrebbe saputo più facile­mente vincere le resistenze della natura esteriore. E così sorsero il patriarcato e la tribù. Ma tutta la patria allora si circoscrive­va ai confini dell’angusta valle nativa, od ai lembi della foresta.
Ma poi le relazioni si estesero, i sentimenti di socievolezza sotto l’impulso dei bisogni si diffusero maggiormente – sorsero le prime città: ed il concetto di patria si allargò fino alle mura, che la difendevano dai nemici.
Nel medio-evo la patria fu come il comune; e si credeva tanto logica e patriottica una guerra tra comune e comune, come le tragiche guerre tra Pisa e Genova ed altre consimili, che oggi si giudicherebbero fratricidio – come oggi si giudicano ancora da molti le patriottiche guerre combattute fra nazione e nazione. Ma verrà il tempo in cui, come si ride dello spirito di campanile, ed anche il regionalismo – si riderà del sentimento patriottico come ora è inteso dai più; e si comprenderà che la in­tiera famiglia umana è l’unica nazione logica e grande; tutta la terra trasformata dai portenti dell’ingegno umano, nella immensa e gloriosa patria dell’umanità.
A questo ci conducono, cittadini, le rigide leggi della storia, alla grande idealità di fratellanza internazionale, cui si ispira odiernemente l’intero movimento socialista e libertario, tutta la falange degli operai uniti nelle loro organizzazioni di me­stiere per la resistenza contro lo sfruttamento e la tirranide, che hanno sentito la gran voce che dal 1848 li ha chiamati a raccol­ta col grido: Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!
* * *
Dicevamo dunque: Guerra alla guerra, sotto qualunque forma si manifesti!
Guerra alla guerra economica, alla guerra morale, alla intellettuale! Guerra ad ogni forma di sopprafazione, e facciamo largo alla nuova civiltà nuova, basata sul gran principio della solidarietà, solidarietà delle patrie, delle classi, delle caste, concorrenti in un movimento uguagliatore al libero sviluppo delle energie di ciascuno per il benessere di tutti.
Oh! Il bel sogno! Come dolce sarebbe con un coro d’angeli e al batter di una bacchetta magica, veder trasformarsi questa nostra società, in cui è legge l’homo homini lupus di Hobbes, in un’altra società basata non più sul, privilegio, sull’ingiustizia e sul diritto collettivo ma sui grandi principi della solidarietà, della giustizia e della pace!
Ma invece, impedimento enorme all’avanzarsi dell’avvenire, nella società nostra esiste un gregge, che si contenta di pascolare, brucando i fili d’erba sul prato infecondo, senza conoscere altre vie all’infuori di quelle che menano all’ovile ed al macello.
E di contro a questo gregge, che bruca le tisiche erbe del prato, i padroni del fondo e dei velli futuri guardano ocn occhio soddisfatto dalle finestre della villa, mentre, per compiere il quadro, i soldatini in erba prendono a sassate i frutti del giardino e, in mancanza di quelli, magari i neri cipressi cantati dal Carducci, laggiù in fondo al viale, disegnatisi colle loro cime sul cielo cireneo, tutto coperto di nubi gravide di tempesta.
Bisogna dinque attendere; e nel frattempo combattere, e affrontar tempeste, correr pericoli, calpestare rovi pungenti, prima di giungere alla città della luce, laggiù, verso oriente, dove la scorgiamo appena biancheggiare, candida di una immensa promessa di amore e di tranquillità.
Si è mai domandato alcuno di voi come i militaristi giustifichino la soppravvivenza nella società nostra di queste consuetudini belluine di altri tempi, meno civili degli odierni?
Noi sì. Se no la giustifichiamo, la sappiamo spiegare questa permanenza fra noi degli istituti di violenza. E se anche nel sapessimo, se ne incaricano essi stessi di spiegarcela alla prima occasione.
Questa città, in cui ferve il lavorio della organizazzione economica, in cui gli scioperi si sono succeduti agli scioperi, nei giorni di battaglia anche la più pacifica, la meno irruenta, la più legale, deve aver visto passare da un capo all’altro, le compagnie di soldati mandati dal governo ad assicurare la… libertà del lavoro. Era quello il militarismo in azione, nell’esercizio delle sue mansioni: la difesa del privilegio politico ed economico.
Questa è una delle ragioni di sua esistenza fra le più importanti. Essa spiega ancora una volta perché gli uomini di progresso ne sono avversari, e perché noi, che contro il privilegio politico ed economico combattiamo, se non fosse per alcun’altra ragione, dovremmo combattere lo stesso per questa contro il militarismo.
Ma, ripeto, quale giustificazione chiamano mai in loro appoggio i militaristi, dal momento che questa nostra essi non la possono invocare senza ammattere implicitamente l’ingiustizia del loro privilegio insieme a quella di tutto il sistema che essi difendono?
Io ricordo come certe vecchie carte ingiallite la voce tremolante dell’avo che il militarsmo (l’armata si diceva allora) giustificava presso a poco coi sillogismi con cui Torquemada giustificava la Santa Inquisizione.
Nel concetto turpemente cattolico degli Inquisitori le vittime sottoposte ai suplizi su questa terra acquistavano più presto nell’altra vita le gioie del paradiso. «Se togliete dal mondo le armate – diceva mio nonno – quanta parte di nobiltà dello spirito umano se ne andrebbe con loro!».
Eppure questa giustificazione, che traeva le sue origini ancora dallo spirito ardimentoso dei cavallieri di ventura, era sempre meno ributtante che non quella dei guerraioli bottegai d’oggigiorno maledetti da Victor Hugo e pur sopravissuti al secolo dell’esperienza, il secolo dell’attesa, come lo chiamò Pietro Kropotkin. Nonostante, in questo lambicco di esperimento che fu il secolo XIX si continuò cinicamente a chiamar gloria ciò che non era che delitto.
El crimen de la guerra, prezioso libro dell’Alberti, poco conosciuto dagli italiani, che rinunciano tanto volentieri nel loro anafalbetismo politico a conoscer ciò che pur così da vicno li riguarda, El crimen de la guerra illustra questo concetto della gloria militareassimilata al delitto, e diversa da questo sol perché è esplicazione d’una criminalità collettiva, e rileva tutta l’assurdità della condanna di due rissanti, che sulla via si prendono a coltellate, quando si è indulgentissimi verso altri due che scendono sul terreno a scannarsi, sol perché questi lo fanno con un coltello più lungo e più… nobila: la spada.
Una morale che condanna la zuffa violenta di due uomini corrotti e violenti che si contendono col pugnale alla porta di un pastribolo il possesso di una sventurata che poi il vincitore sfrutterà, e che condanna anche, se non troppo severamentecon le leggi penali almeno nell’opinione dei più, i pretesi gentiluomini che con la sciabola o la rivoltella si battano per rivalità d’amore, un amore forse copre cupidigia d’una dote – questa stessa morale perché non dovrebbe condannare e render impossibili quanto prima i giganteschi duelli di popoli, assai più funuesti e terribili, che fanno spargere sudore, lagrime e sangue, e troncano migliaia di vite umane e laboriose, per assicurare ad una potenza politica piuttosto che ad un’altra autorità su di un paese, per dare ad una oligarchia finanziaria piuttosto che ad un’altra la possibilità di sfruttarlo economicamente?
– Tu sei un regicida! – grida la società, terrorizzata da un colpo mortale, che una mano armata di pugnale, alla cui cima affidava la ragion d’una idea seppe vibrare nel petto di un coronato.
E nessuno pensa che è da questo contagio di sangue che si respira nell’aria e da questa ridda d’interessi, di passioni e di appetiti che sorge il desiderio, la necessità, il bisogno di uccidere. E la morale di questa frenesia, la determinante?
Chi di voi ha avuto la disgrazia di dover leggere qualcuna di quelle offese alla logica ed alla grammatica che soglionsi chiamare note diplomatiche, avrà capito che la sorte della giustizia e della pace tra gli uomini sta tutta ancora racchiusa in questo poche barbariche espressioni:
– Io ho ragione! – No, la ragione è mia! – Ebbene, eccoti questo colpo di spada. – E tu, pigliati questa fucilata -. E così scoppia la guerra, e l’umanità in pieno secolo XX fa la prova dell’acqua amara, dello stivale di pece rovente, il Giudizio di Dio di medioevale memoria.
Oh! di fronte a tanta incoscienza turpe e brutale, si capisce benissimo come lo stesso codice che manda in galera gli autori dell’omicidio individuale, permette appena che, dopo l’assassinio di 35.000 patritti in Polonia, l’anima popolare lanci per bocca di Flouquet il suo anatema, la sua maledizione: «Vive la Pologne, Monsieur!» – Davvero, se il biblico qui gladio ferit gladio perit si dovesse avverare, quante volte dovrebbero cadere uccisi i gallonati e i responsabili dei favolosi eccidi come quelli di Polonia!
Ma il concetto biblico della vendetta, dell’«occhio per occhio, dente per dente» è troppo contraddicente alle nostre idealità perché io abbia qui ad invocare.
* * *
Però, abbiamo di che consolarci! La guerra oggi ha perduto parecchio del suo carattere primitivo; ora la guerra, secondo i suoi apologisti, non è più selvaggia come una volta, perché è diventata… scientifica.
Quale cinismo! quale profanazione d’una parola sacra! La guerra scientifica, e cioè, le doti dell’ingegno, le notti insonni dello studioso dedicate al problema della sitruzione. Scienza in questo caso è sinonimo di maledizione.
Ma servitene, o uomini, della scienza, di questa benefica Dea, per strappare i suoi segreti alla natura, per dar vita alle macchine, la forza al carbone, per rendere l’elettricità produttrice di ricchezza, – ristorare i tendini rilassati delle pecchie umane nella fatica del lavoro quotidiano; servitene per tagliare le montagne, per irrigare le valli, per rendere l’aria salubre, per allacciare fra di loro i popoli stringerli in un patto fraterno di solidarietà e di collaborazione, affinchè procedano insieme alla conquista del progresso e della felicità.
Fate della scienza uno strumento di civiltà, – non di distruzione e morte!
La guerra moderna, abbiamo detto, è cinica.
Infatti, la guerra scientifica, per cui si possono recidere a migliaia di metri di distanza migliaia di uomini che non si conoscono, ha perduto anche la forma del culto primitivo della forza e della destrezza delle armi, che si aveva nella Grecia antica.
Gli Agamennone, gli Achille, gli Ettore, gli Enea non sono più possibili ora, coi fucili a ripetizione, colle palle dum dum, colla dinamite e colla melenite, con tutte quelle sostanze esplodenti insomma, che han la deisnenza molto simile a quella dei malanni dell’umanità (la bronchite, la polmonite, la pleurite, ecc…). Oggi giorno è Moltke che trionfa, disponendo serenamente sulla carta topografica le bandierine rosse, per studiare più facilmente a tavolino le mosse del nemico ed i felici attacchi dei suoi.
Ma se un grande occhio pensoso si affacciasse dimani, durante una guerra, alla volta del cielo per assistere alla tragedia umana, a vedere le giovani vite mietute come spighe d’oro dall’immensa falce inesorabile, e le armi da fuoco vomitanti la morte, – inconsapevoli esse non meno di coloro che le caricano, – se quest’occhio pensoso vedesse i cadaveri ammucchiati, orribilmente mutilati, gli uni sugli altri, e il sangue scorrere a rivi, senza una lacrima, e senza un rimorso da parte di chi n’è la cagione, verrebbe fatto a quel grande occhio pensoso di domandarsi se non sia un destino cieco, inesorabile, che condanna gli uomini dalla loro origine a un mutuo macello, o non pittosto una grande sciagurata follìa che soggioga il genere umano e pervade la storia e ne trionfa.
* * *
Attaccandosi all’ultimo rasoio, bruciando l’ultima cartuccia, col recitare il classico licet vim repellere vi, i guerrafondai parlano gesuiticamente di difesa del territorio nazionale, del suolo natio, della patria.
Ma qual patria, di grazia? La patria dei commendatori e dei banchieri, o la patria comune degli italiani?
Quando ci coprivate di fango e ci legavate i polsi e ci cacciavate in esilio quali distruttori della famiglia, della religione, della patria, noi pure piangemmo il nostro mare e il nostro azzurro d’Italia, e delle nuove patrie adottammo lungo il vagabondaggio non inutile oltre il monte ed oltre il mare, sentimmo anche noi il culto e la venerazione fatta di desiderio del natìo loco lontano; noi pure, e noi più che gli altri, rivolgemmo sempre il pensiero più gentile a questa patria, da cui ci avete scacciati; – ma non per questo mai sentimmo il bisogno di uccidere coloro che non avevano avuto la sorte di nascere sotto un cielo azzurro come il nostro, sulla riva d’un mare così odoroso come il mar di Liguria.
E imparammo così, accanto all’amor di patria, l’amore degli uomini, e imparammo a ripetere ogni giorno la formula dell’augusto Tolstoj, che invita i soldatini di tutto il mondo a non sparare contro i loro fratelli, quando anche ciò venga comandato.
Ed è per questo che bisogna sempre ripetere, e a chi la nostra voce sembrasse ormai monotona rispondiamo come Molière alla propria moglie: «Io vi ripeto sempre le medesime cose, perchè voi fate sempre le medesime cose; e finchè voi farete le medesime cose, continuerò a ripetervi le medesime cose». Napoleone stesso – vedete che io prendo anche da lui le prove del mio assserto – Napoleone stesso disse che l’argomentazione più forte è la ripetizione.
Così, ripetendo quanto abbiamo detto finora, noi non possiamo che riassumere le nostre parole in un grido, che sia a un tempo maledizione, promessa ed auspicio d’un’era nuova, in cui non sia bandita la lotta feconda, la benefica contesa nel campo dell’arte, della scienza e dello esplicarsi multiforme della vita quotidiana, – ma sia bandita per sempre la lotta sanguinosa e fraticida perpetua dai potenti per bramosia di dominio, per monopolio di potere sul gregge umano, che altre vie non conosce all’infuori di quelle dell’ovile e del macello: «Guerra alla guerra!».
 (1) Il Gori fa riferimento alle parate militari che si svolgevano a Parigi in quei giorni.

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