23 maggio 2016


GIOVEDI' 2 GIUGNO 016

dalle 19.30 aperitivo Vegan
e a seguire PRESENTAZIONE dell'opscuolo
"SANZVES E MANGANEL" (Sangiovese e manganello)
una ricerca-critica su Predappio come attuale mecca nera del fascismo.


Predappio è il paesino che ha, per la sciagura di tuttx noi, dato i natali al dittatore Benito Mussolini. Il dato meramente storico potrebbe essere archiviato nei libri, se non fosse che l'esistenza di questo paese è ancora indistricabilmente legata
all'ideologia e alle organizzazioni fasciste.
Il lavoro che hai tra le mani nasce da una constatazione molto semplice: riguardo a Predappio non è mai stata prodotta una critica che secondo noi vada al di là del folklore o del nostalgismo dal tono giornalist
ico.
La questione predappiese non è mai stata oggetto di un'analisi politica: ecco il perché di uno scritto che nel presentare la realtà dei fatti si delinei anche come
strumento per un possibile intervento.
Capire quanto di fascismo viene ancora prodotto e alimentato in Predappio e quanto e cosa si possa fare per impedirlo. Predappio è inscindibile dal fascismo e questa verità non si conforma all'immagine della democrazia “repubblicana e antifascista” che ad ogni 25 Aprile (poi basta) i politicanti cercano di vendere in piazza.
La storia secondo noi, specie quella contemporanea, non è una mera raccolta ed esposizione di fatti, è anche rielaborazione e contestualizzazione e crediamo che il
suo studio serva per sviluppare un esercizio intellettuale critico: conoscere ciò che è stato e ciò che si svolge per prendere una posizione.
Problematizzare gli eventi ed operare una scelta.

Predappio in questo contesto non è solo un catalizzatore di energie dell'universo nazi-fascista, un luogo di ritrovo sacro.
È un simbolo, un immaginario, un'anomalia anche formale in una nazione che tutto sommato cerca vigliaccamente di darsi una spennellata di costituzionalismo repubblicano e antifascista.
Predappio è la parte più sincera di un paese in cui il fascismo, nei suoi
atteggiamenti e soprattutto nei contenuti, è ampiamente sdoganato.


@Laboratorio Anarchico LA*ZONA
via bonomelli 9 Bergamo
lab.lazona@gmail.com


LA VALORIZZAZIONE DELL'ESCLUSIONE E QUELLA DELL'INCLUSIONE

Da Macerie
La valorizzazione dell’esclusione e quella dell’inclusione
Non è facile cercare di dare una lettura semplice alla gestione europea dei flussi migratori così come si è imposta negli ultimi due anni. I motivi sono molteplici e riguardano soprattutto la provvisorietà delle misure che i singoli Stati hanno adottato per far fronte alle “emergenze” e la differenza stessa di questi provvedimenti, strettamente collegati al contesto territoriale nazionale, cioè al suo posizionamento geografico rispetto ai corridoi di migrazione e al perimetro dell’Eurozona, agli interessi economici interni e a quelli d’investimento nei Paesi stessi da cui migliaia di uomini e donne son partiti. A ragion di questo, avere una visione troppo omogenea di ciò che muove i membri della UE non restituirebbe una visione a fuoco, quanto piuttosto un’idea forfettaria in cui la realtà di competitors economici risulterebbe troppo accontonata rispetto a una natura prettamente e classicamente politica di Stato-nazione.
Un punto d’attacco analitico alla questione è quello di considerare le strategie comuni, così come sono emerse, di messa a profitto dei flussi migratori tenendo tuttavia bene a mente un certo gap d’intenzionalità tra il potere “centrale” di Bruxelles e quello degli specifici governi nazionali. Dacché, in aggiunta, questi ultimi sono inseriti in una graduatoria decisionale data dalla forza economica avranno anche esigenze diverse nella gestione demografica del vecchio continente, e di conseguenza nell’afflusso quantitativo e qualitativo di manodopera immigrata. Del resto è scontato ribadire che ai poteri neoliberali contemporanei s’accompagna sempre una lente che vede le persone come capitale umano, passibile di valorizzazione su più scale, anche quella dell’esclusione. Cercare di capire il significato di sfruttamento insito in questa prospettiva d’interesse, potrebbe esser d’aiuto anche a trovare un punto d’attacco pratico, di lotta, che permetta di trascendere la distinzione tra immigrati e autoctoni per concentrarsi sulle condizioni di sfruttamento che li accomunano.
Ma questo sarebbe già un buon punto in un percorso rivoluzionario. Per ora non si può far a meno di partire dalle specificità, e in questo caso dall’organizzazione e dalle conseguenze del governo della migrazione povera, a partire dall’inserimento integrativo nel tessuto produttivo nazionale, passando per i dispositivi di filtraggio e smistamento (dalle strutture “logistiche”, come i neonati Hotspot, alla frontiera), fino ad arrivare all’espulsione vera e propria nei centri della Detenzione Amministrativa.
D’altra parte gli annunci di costruzione di muri e riproposizione del ruolo della frontiera chiusa nello spazio intra-UE non possono certo esser presi sottogamba. Eppure gli intenti sull’erezione di recinzioni lungo la frontiera italo-austriaca, o la chiusura effettiva di quella tra Svezia e Danimarca e di quella tra Danimarca e Germania, risultano in base ai processi stabiliti dagli ultimi accordi internazionali una soluzione emergenziale data dall’interesse non comune dei Paesi europei. Le soluzioni emergenziali sono certo esse stesse parte di processi strutturali, ma è doveroso riuscire a inserirle in una prospettiva più ampia di governo delle migrazioni verso l’Europa.
Proprio per questo è interessante riportare quali direttive in materia di gestione dei flussi migratori stanno vedendo attuazione. Su questa scia, l’ultimo step è quello presentato il mese scorso da Matteo Renzi ai presidenti del Consiglio e della Commissione UE: un piano per limitare i flussi attraverso una protezione delle frontiere esterne dell’Europa. L’obiettivo non è sono quello di stabilire un limes per impedire gli ingenti arrivi previsti per il prossimo biennio, ma anche quello fondamentale, e assolutamente complementare, di migliorare la tenuta e la “libera circolazione” di Schengen. Il Migration Compact di Renzi è stato ben accolto a Bruxelles, anche perché è il linea con le decisioni prese il novembre scorso a La Valletta tra i leader europei e quelli africani, per «una responsabilità condivisa dei paesi di origine, di transito e di destinazione». Il processo di esternalizzazione della frontiera europea non è tuttavia nato negli ultimi anni ma ha assunto rilevanza nel 2006 con gli accordi di Rabat. Nella capitale amministrativa del Marocco, i governi di 55 paesi europei e africani (Africa settentrionale, occidentale e centrale), insieme alla Commissione europea e alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale si sono incontrati per rafforzare la cooperazione in materia di migrazione. L’obiettivo principale di questa cooperazione? Consentire lo scambio di informazioni tra le autorità al fine di prevenire la migrazione irregolare, la criminalità transfrontaliera e la mobilità dei cosiddetti foreign fighters. Questi tre punti, spesso e volentieri, vengono presentati come indistinti in un generale discorso sulla pericolosità migratoria, quello stesso attraverso cui trovano legittimazione gli interventi militari sulle coste dall’altro lato del Mediterraneo. La cornice interpretativa di questo discorso si sostanzia generalmente in un’esigenza di protezione preventiva, “la società europea militarmente si deve difendere”.
Le linee della guerra trovano nuove sfaccettature con le direttive stabilite a un altro incontro, quello avvenuto nel 2014 a Khartoum. Nella città sudanese gli Stati membri dell’UE insieme a 9 paesi del Corno d’Africa e a paesi di transito hanno concordato, con la solita legittimazione del contrasto alla tratta di esseri umani e alla lotta al terrorismo, una serie d’investimenti europei in loco con l’intento di prevenire gli spostamenti delle persone. In pratica si tratta per l’Europa di investire, di rafforzare pezzi del proprio mercato nei paesi di origine e transito dei migranti, agevolandone la crescita economica e avendo manodopera certa da radicare.
Oltre a questo livello più prettamente produttivo e indiretto della frontiera esternalizzata, vi è quello del controllo diretto sui flussi. Il Processo di Khartoum, nel solco di quello di Rabat, rafforza la tendenza a trasferire sui paesi terzi, di transito e di origine, il compito di “difendere” le frontiere europee di fronte a un crescente afflusso di migranti; aumenta i controlli anche attraverso l’agenzia FRONTEX, realizzando operazioni di respingimento verso i paesi di origine; cristallizza la cooperazione nella gestione dell’ispezione dei territori attraversati da corridoi migratori e prevede finanziamenti ai campi e alle strutture che selezionino chi può avere una possibilità d’accesso all’Europa. Questi ultimi sono quegli stessi posti concentrazionari da cui i migranti provano a scappare per le condizioni abominevoli a cui sono costretti. Le prigioni per migranti della Libia, il mercato di esseri umani in Turchia e il muro di contenimento al confine siriano, sono in questo senso solo la punta dell’iceberg.
Questi accordi multilaterali prendono in esame anche un agire non preventivo ma successivo alla deportazione dall’Europa ai Paesi d’origine. Il rimpatrio e la riammissione efficaci di coloro che non necessitano di protezione rappresentano una priorità fondamentale per lorsignori tanto che l’UE ha un piano di sostegno alla reintegrazione fatto d’investimenti per il potenziamento dei Paesi d’origine.
Quanto tutto ciò sia effettivamente corrispondente al vero non è dato sapere. Ciò che invece qui da queste parti sta accadendo, è che ci sono dichiarazioni a destra e a manca di rafforzamento del sistema dei respingimenti.
Difatti è recente la notizia che il governo italiano ha in agenda il rafforzamento della macchina delle espulsioni. Dal Viminale Mario Morcone tuona:
“Abbiamo sottoscritto l’impegno con l’Europa ad avere la disponibilità di 1500 posti nei CIE e lo rispetteremo. È vero che attualmente ci sono pochi posti nei CIE, anche perché queste strutture sono costantemente devastate: chi finisce lì è la gente peggiore. Noi li ricostruiamo e loro ce li incendiano. È come un circo con le gabbie dei leoni. Qualcuno che li ha visitati ha detto che preferirebbe stare a San Vittore piuttosto, ma rispetteremo l’impegno con Bruxelles”.

La valorizzazione dell’inclusione
Oltre il fattore della limitazione esterna e dell’esclusione delle eccedenze attraverso i respingimenti, il significato dell’integrazione nelle politiche sulla migrazione per l’economia di Schengen è altrattanto rilevante. In soldoni si tratta di selezionare nella maniera più accurata possibile l’iniezione di mano d’opera migrante all’interno del sistema produttivo europeo. Quello che implicano i lavori della Commissione Europea sulla gestione interna è che per salvaguardare la libera circolazione delle merci e la competitività europea nel mercato mondiale è necessario effettuare una più stringente selezione dei migranti in base alle necessità di inserimento produttivo. D’altronde in Paesi come Australia e Gran Bretagna già è previsto un percorso di concessione dei visti-lavoro a “punti” in base alla qualificazione di studio e all’esperienza lavorativa precedente.
In Italia – dicono – ci sono invece troppi clandestini. Il sistema di espulsione non è abbastanza efficiente per coloro i quali, squalificati o dediti a procurarsi da vivere illegalmente, rappresentano un costo troppo elevato in termini di servizi sociali erogati senza contributi e gestione giuridica dei fenomeni di disadattamento e criminalità.
Dall’altra parte, invece, una percentuale più alta di immigrati accertati come qualificati porterebbe un maggior apporto qualitativo a più livelli, in primis quello della maggior pervasività degli investimenti europei nei Paesi d’origine degli immigrati: dall’Egitto alla Libia, il piatto è conteso e non solo tra cugini europei.
La soluzione per lorsignori sta dunque in un miglior apparato di selezione. E non che nonostante i proclami sulla valorizzazione delle alte competenze, non sia a loro funzionale una massa di lavoratori costretti ad avere poche pretese. Quel che dicono è che i “serbatoi di manodopera” servono e hanno già un ruolo essenziale nella crescita economica; tuttavia una certa eccedenza, da funzionale a una tenuta dei salari diretti al ribasso, o in certi casi persin inesistente, non deve diventare un surplus tale da non poter essere gestito.
I migranti non sono ritenuti tutti uguali, ça va sans dire. Infatti nell’ultimo anno è entrata a far parte del linguaggio diffuso la categorizzazione binaria tra “profughi di guerra”, con la possibilità di permanere nel territorio europeo attraverso la richiesta di protezione internazionale, e “migranti economici”, costretti al ricatto del permesso di soggiorno. Già questa prima differenziazione fa una prima selezione giuridica che permette da un lato di considerare indesiderabili e clandestini coloro che vengono da Paesi per cui non è prevista la protezione internazionale, e quindi nella maggior parte dei casi passibili d’espulsione; dall’altro di sfruttare al meglio il tempo di permanenza dei richiedenti asilo nei territori nazionali europei.
È quel che ha formalizzato la cancelliera tedesca in una legge che può esser considerata esemplare. Con il plauso internazionale di media ed economisti, a differenza dell’opinione negativa espressa sui muri minacciati dall’Austria, a metà aprile il governo Merkel ha approvato il “pacchetto integrazione”: degli 800.000 arrivi di migranti nel prossimo anno, oltre la metà non saranno accolti; per tutti gli altri, per lo più rifugiati, non si prospetta però un destino più roseo. Sotto il motto “foerdern und fordern” (tradotto: incentivare e pretendere), la legge infatti stabilisce lo sfruttamento forzato con la creazione di 100.000 posti di lavoro quasi gratuiti, in barba alla legge tedesca sul salario orario minimo di 8,50 euro. “Lavori da un euro” li hanno chiamati beffardamente durante la discussione in Parlamento. Lo stesso provvedimento prevede l’impossibilità di accedere al canonico mercato del lavoro se non tramite l’apprendistato. L’obbligo è quello di sottostare a quest’occupazione, pena il decadimento della tutela internazionale. Al lato produttivo s’accompagna uno più normativo, funzionale al sistema di controllo e alle leggi sull’antiterrorismo, che stabilisce che sia lo Stato a decidere dover far risiedere senza possibilità di spostamento gli immigrati e che ivi debbano seguire corsi di lingua e cultura tedesca.
I provvedimenti tedeschi sono abbastanza palesi da offrirci una buona lente attraverso la quale vedere anche quello che succede più vicino. In Italia l’inserimento nei cicli di sfruttamento tramite le associazioni e le cooperative che si occupano di Seconda Accoglienza è sempre più diffuso, soprattutto tramite il sistema delle borse lavoro o dei tirocini. Ma non solo. Nel capoluogo piemontese ventisette rifugiati hanno aderito al progetto di messa a lavoro “volontario” e gratuito nato dall’intesa tra Comune e Amiat, l’azienda per lo smaltimento dei rifiuti. Con tanto di pettorina con su scritto “Grazie Torino” ripuliscono le strade e il sindaco Fassino la spaccia per una forma di restituzione alla città rispetto all’accoglienza ricevuta.
Tuttavia se è palese il lato dello sfruttamento della manodopera ricattabile in tutti questi progettini sempre più numerosi e diffusi, benché per ora non si sia una legislazione regolamentare nazionale come in Germania, lo è meno quello della selezione e soggettivazione all’empowerment individuale operata all’interno dei processi integrativi della Seconda Accoglienza. Se gli Hotspot rappresentano il punto logistico di smistamento giuridico, le strutture che si occupano di accoglienza integrata, in teoria, sono quelle atte al bilancio delle competenze dei singoli e di selezione economica dei più adeguati al mercato occupazionale locale. Che questo processo sia poi di fatto farraginoso rispetto agli scopi non gli toglie gravità.

Il contenimento nelle strutture della Seconda Accoglienza
I luoghi della Seconda Accoglienza, lo SPRAR, i CARA e i CAS, presentati dalle istituzioni come i luoghi dell’integrazione e dell’inserimento dell’immigrato, assolvono a funzioni strutturali nel controllo e nella gestione di una parte del flusso migratorio e nella sua messa a valore in senso economico.
È necessario, tuttavia, fare delle opportune differenze tra le diverse strutture della Seconda Accoglienza, in modo da poterne cogliere sia le particolarità che le differenti criticità.
I CARA sono centri enormi, 13 sul territorio italiano, la cui sicurezza interna è garantita da militari e forze dell’ordine, spesso in strutture che un tempo erano CIE. Il loro ruolo è più chiaro se si considera che al loro interno sono presenti le unità per i rilievi dattiloscopici.
I CAS (Centro d’Accoglienza Straordinaria), che rappresentano la modalità d’accoglienza più in uso in Italia, sono un insieme di centri, piccoli o grandi, sparsi per il territorio italiano. Questi sono caratterizzati dal criterio dell’emergenzialità sia per la scelta della struttura che per l’assegnazione della gestione all’ente.
Lo SPRAR, invece, acronimo che sta per sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, detto anche sistema dell’accoglienza diffusa, è un insieme di progetti integrativi per l’immigrato, volti al suo inserimento sociale ed economico all’interno della società italiana. Tale sistema utilizza come luoghi per l’accoglienza strutture fisiche delle più diverse, da appartamenti a fabbricati fino a caserme o alberghi.
Le cooperative, i consorzi o le aziende che lavorano all’interno di queste strutture sono svariati, alcune specializzati nel controllo dell’immigrazione e con un’esperienza ormai assodata nella gestione di numeri considerevoli di immigrati concentrati in una medesimo posto, altre, invece, sono piccole o grandi associazioni, nate e cresciute nel contesto dell’assistenza e dei servizi alla persona. Inoltre, molti di questi enti sono i medesimi che hanno gestito o gestiscono tuttora i CIE e che negli anni sono diventati professionisti del settore. Di fatto, non è azzardato considerarli come strutture semi-detentive in cui gli immigrati vivono senza la possibilità di poter gestire autonomamente la propria esistenza. Un regolamento interno, orari di sveglia e di rientro notturno, l’impossibilità di scegliere con chi vivere e cosa mangiare, l’obbligo di comunicare i propri spostamenti sono, infatti, la base normativa di questi luoghi. Le condizioni di vita dei richiedenti sono così caratterizzate da una sospensione perpetua, un’attesa infinita della risposta della Commissione Territoriale e, quindi, da una dipendenza dalla struttura accogliente.
Benché i tempi di permanenza dovrebbero essere di 35 giorni nei CARA e di 6 mesi rinnovabili negli SPRAR, una persona richiedente asilo può stazionare in questi “parcheggi” anche per diversi anni, in una totale incertezza riguardo al proprio futuro giuridico.
I servizi offerti malgrado siano presentati dalle istituzioni come strumenti finalizzati all’indipendenza del soggetto, assurgono nella realtà l’effetto di fortificare, attraverso il soddisfacimento di alcuni bisogni, il legame di subordinazione fra il migrante e il sistema d’accoglienza. Infatti, nonostante all’immigrato sia garantita la possibilità di poter uscire durante la giornata, gli sia corrisposto un pocket money o offerto un abbonamento per i mezzi pubblici, le sue possibilità di emancipazione dal sistema d’accoglienza sono molto remote. Basti pensare all’isolamento in cui, spesso e volentieri, si trova chi sta in questi posti, all’impossibilità di conoscere la realtà che li circonda se non attraverso i canali offerti o alla possibilità mancata di soddisfare autonomamente i propri bisogni.
Tale condizione generale che contrasta con l’autonomia e l’autodeterminazione dell’individuo assume un aspetto ancora più eclatante proprio nei progetti SPRAR, dove è il percorso d’integrazione a essere posto come centrale. Nei progetti di inserimento infatti un concetto fondante è quello d’empowerment, ovvero di potenziamento del soggetto, partendo però dall’immagine dell’immigrato come soggetto debole in possesso di qualità personali, sociali o lavorative in difetto e che devono essere per questo stimolate attraverso percorsi istituzionalizzati. Una contraddizione fra l’offerta di strumenti per l’autonomia individuale, l’immagine categorizzata del migrante e la condizione di dipendenza effettiva.
Un altro elemento contraddittorio emerge se si guarda alle statistiche sugli esiti generali delle domande di protezione. Nel 2015, infatti, il 56% delle richieste hanno ricevuto il diniego dalle Commissioni Territoriali. Se si considera che il sistema della Seconda Accoglienza si basa principalmente sui richiedenti asilo, persone che possono rientrare facilmente in una condizione di irregolarità, sorge spontaneo chiedersi a chi servano i percorsi integrativi. Infatti, sembra piuttosto che i corsi di italiano o l’orientamento formativo, legale o abitativo, siano degli elementi fortemente funzionali alla giustificazione dell’esistenza stessa di questo sistema e del business ad esso sotteso.
Business che è tutt’altro che marginale. Solo per citare un esempio, i soldi corrisposti dalla Prefettura all’ente gestore per quanto riguarda il CARA di Mineo sono 140.000 euro al giorno, cifra che ammonta intorno a 40 milioni annui. Il richiedente asilo per un determinato periodo di tempo è, infatti, messo a valore, sia attraverso i finanziamenti che fanno guadagnare chi gestisce i centri della Seconda Accoglienza, sia attraverso lo sfruttamento della sua forza lavoro.
Negli SPRAR, dove sono presenti gli immigrati in attesa di un permesso umanitario, viene corrisposta una cifra pro-capite anche se, in molti casi, permangono in queste strutture anche coloro ai quali è stata negato il permesso e che di conseguenza dovrebbero perdere il diritto di rimanerci.
L’interesse principale per i gestori di tali strutture sembra proprio quello di riempirle il più possibile moltiplicando gli introiti in una logica economica di scala.
Il mondo della Seconda Accoglienza è in aggiunta anche un grosso bacino di manodopera a basso costo o a costo zero per aziende e imprese. La messa a lavoro dell’immigrato può passare sia per canali legali, assumendo la forma delle cosiddette borse-lavoro o del lavoro volontario, sia attraverso vie parallele come il lavoro in nero. Ciò che accomuna queste differenti forme di sfruttamento è la messa a profitto del richiedente asilo obbligato a vivere per anni in attesa dell’esito della domanda di protezione.
Proprio questa condizione limbica ha portato nell’ultimo anno a un aumento delle proteste degli “ospiti” che hanno lamentano l’inattività obbligata, le attese infinite dovute alle lungaggini burocratiche nelle quali incappa ogni singola richiesta d’asilo e i conseguenti dinieghi, la mancata erogazione di bonus quali i pocket money e gli abbonamenti gratuiti ai servizi pubblici, il cibo di pessima qualità che in alcuni casi non viene addirittura servito.
A far da sfondo alle singole motivazioni è la sensazione di essere letteralmente parcheggiati. I rifugiati sono riusciti a far conoscere le proprie rivendicazioni bloccando strade, occupando i centri di accoglienza, impedendo l’entrata ai vari operatori, organizzando manifestazioni sotto alle Prefetture dove erano bloccate le pratiche per le richieste d’asilo, rifiutando il cibo scadente fornito nelle mense. Questi sono solo alcuni esempi usciti dalle cronache locali ai quali vanno aggiunti le fughe e gli allontanamenti.

La valorizzazione dell’esclusione
Il processo di valorizzazione della manodopera straniera passa attraverso il filtraggio e la categorizzazione degli immigrati, secondo criteri che si vorrebbero sempre più selettivi e funzionali al mercato del lavoro. Tale processo non può che aumentare il numero degli esclusi, cioè di coloro ai quali vengono negate le condizioni minime di sostentamento.
Se da una parte un numero sempre maggiore di immigrati di recente arrivo vengono inseriti nei percorsi di integrazione andando a riempire strutture adibite alla Seconda Accoglienza, dall’altra lo “scarto”, ovvero molti degli immigrati cosiddetti economici, prendono la strada dell’irregolarità. Tuttavia, stando al rapporto sulla Detenzione Amministrativa del febbraio 2016, meno del 10% degli scartati è finito in un CIE, quindi la stragrande maggioranza ha ricevuto soltanto un foglio di espulsione. La maggior parte di coloro che vengono identificati negli Hotspot e categorizzati come irregolari dai CIE non ci passa. Nei centri della Detenzione Amministrativa non c’è posto perché queste strutture vengono continuamente incendiate dai reclusi.
D’altro canto, vero è che la macchina delle espulsioni, anche nella sua piena potenzialità, non potrebbe mai colmare l’esigenza di contenimento ed espulsione dei tantissimi senza-documenti. I 1.500 posti in più richiesti all’Italia dall’Unione Europea risultano essere quindi una piccola pezza, funzionale se non altro al potere di deterrenza del CIE. Va da sé che il ricatto del permesso o la minaccia di espulsione costringono molti immigrati senza le carte in regola ad accettare qualsiasi condizione lavorativa, spingendo sempre più in basso l’asticella del livello salariale.
Non si può però dimenticare l’aspetto significativo della messa a profitto degli immigrati irregolari che nel CIE ci finiscono. L’enorme introito percepito dagli enti gestori è garantito da un pagamento pro-capite dei reclusi. Inoltre lo Stato prevede, su richiesta dell’ente gestore, la possibilità del pagamento della metà dei posti disponibili anche quando a seguito di rivolte e incendi delle aree, il numero di reclusi diminuisce considerevolmente.
Se la macchina delle espulsioni non assolve tutte le sue funzioni, non è detto che i governanti di fronte alla previsione di crescita dei flussi migratori non decidano di vagliare altre strade. È ciò che suggerisce la notizia di questo maggio: decine di immigrati che protestavano a Lampedusa contro i rilievi dattiloscopici nell’Hotspot sono stati caricati in voli charter e rimpatriati. Non è da escludere che la gestione emergenziale della migrazione apra alla regolamentazione dell’espulsione diretta.

Uno sguardo sulla “Seconda Accoglienza” in Piemonte
In Piemonte, secondo i dati dell’agosto 2015, ci sarebbero 5292 persone presenti all’interno delle strutture di Seconda Accoglienza della Regione, divise tra CAS (4461) e progetti SPRAR (821). È interessante notare come gli arrivi nelle strutture, in totale 10427, non coincidano con le presenze effettive, segno dell’altissimo indice di abbandono immediato. La maggior parte dei richiedenti protezione internazionale è ospitata all’interno di strutture di Torino e provincia, 1699 persone, il restante diviso per le altre province piemontesi. Gli edifici in questione sono molto differenti tra loro: appartamenti, hotel o piccoli fabbricati, caserme o veri e propri centri con centinaia di persone. Questi ultimi a volte sono costituiti da container, o in certi casi sono vere e proprie tendopoli come accade per il centro SPRAR di Settimo Torinese che, nei periodi di punta, contiene più di 300 persone. L’intero sistema regionale legato all’Accoglienza Secondaria comprende un insieme di differenti associazioni e cooperative, piccole o grandi, alcune delle quali sono i soliti volti noti della gestione degli immigrati in Italia. In generale, a causa dell’emergenzialità legata alle strutture CAS, è estremamente difficile riuscire ad individuare proprio tutti gli enti che nella Regione Piemonte fanno soldi con la gestione degli immigrati. Ciò che si può fare è offrire un panorama generale di chi, a fasi alterne, partecipa e si aggiudica i bandi della Prefettura o da questa viene scelto in via emergenziale.
Gli enti gestori dell’Accoglienza sono, come detto, numerosi e presentano caratteri differenti. Guardando gli ultimi dati della Prefettura sui progetti SPRAR 2015 a Torino emergono entità delle più svariate. Ad esempio la Diaconia Valdese, gestore dell’accoglienza di 139 persone tra Torino e provincia, organo della Chiesa Evangelica Valdese che si occupa in molte zone d’Italia di servizi alla persona, assistenza socio-sanitaria, alternativa al carcere e formazione. L’Associazione Recosol – Rete dei Comuni Solidali, nata a Carmagnola ma diffusasi in molti comuni italiani, impegnata nel promuovere cooperazione decentrata nei Paesi in via di sviluppo e per ultimo lanciatasi nel guadagno dei progetti SPRAR. C’è poi la Progest Cooperativa sociale Onlus, gestore del centro per immigrati di San Gillio in provincia di Torino, che si occupa anche di servizi a minori, anziani e di centri terapeutici di salute mentale come le comunità terapeutiche “Il Barocchio” e “Il Giglio”. Poi la Codeal di Aosta, branca della più grossa 3bite, specializzata nella consulenza, nella realizzazione e nella gestione di soluzioni e di servizi integrati nel campo della comunicazione e delle nuove tecnologie. La coop Atypica, anch’esso gruppo assegnatario di una parte di un lotto d’accoglienza d’immigrati, che si occupa di mediazione culturale, infanzia e che gestisce anche un piccolo hotel all’interno del parco di Collegno. Alcuni enti sono nati e costruiti intorno ai progetti educativi e di mediazione culturale, come la Coop Edu-care e Terremondo, altri in progetti integrativi dei soggetti svantaggiati, come la Coop 610, altri ancora sono associazioni di promozione sociale come Tra-Me di Carignano o più schiettamente fornitrici di servizi come la Dinamo Coop. Insomma un panorama variegato ed eterogeneo.
Nella città di Torino, tra gli enti più presenti per la gestione degli appalti sulla Seconda Accoglienza ci sono il consorzio di cooperative Kairòs e la, sempreverde, Croce Rossa Italiana. Il consorzio di cooperative Kairòs è il gruppo fondatore e branca torinese della più conosciuta e famigerata Connecting People. Quest’ultima cooperativa non ha bisogno certo di presentazioni vista la sua decennale esperienza nella gestione dei Centri d’identificazione ed espulsione italiani.
Il consorzio estende la sua rete di guadagno su tutta la filiera dell’accoglienza ma non solo perché si occupa, per fare un esempio, attraverso l’associazione Ecosol, anche della gestione del lavoro dei detenuti nel carcere delle Vallette, oltre a essere una vera e propria potenza economica in città come produttore di welfare privatistico.
Attraverso la cooperativa Esserci, gestisce strutture della Seconda Accoglienza da centinaia di posti, allo stesso tempo promuove progetti per l’inserimento lavorativo attraverso accordi con la Regione e le aziende, creando un bacino di manodopera a costo zero attraverso il sistema delle borse lavoro elargite dalla Regione, 25 ore settimanali pagate 3,50 euro all’ora.
Il consorzio Kairòs non è l’unico esempio di chi vanta una lunga esperienza nella gestione dei CIE; la Croce Rossa che per anni e anni si è aggiudicata la gestione dei CIE italiani e ancora concorre per l’aggiudicazione, è perfettamente inserita in questo affare. Essa gestisce infatti il sopracitato enorme centro SPRAR di Settimo torinese. Il “Teobaldo Fenoglio”, ex villaggio TAV per gli operai impegnati nella costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità, è stato recuperato dal Comune per trasformarlo in un centro di Protezione Civile. Molto probabilmente, la CRI si occuperà anche del futuro Hub nella caserma dell’aeronautica di Castello d’Annone in provincia di Asti, capienza 200 persone. Un filo che lega l’Accoglienza Secondaria degli immigrati al sistema di reclusione e deportazione.
Sono anche altre le cooperative nell’affare dell’accoglienza, che il più delle volte si uniscono in consorzi, raggruppamenti d’impresa che garantiscono un’organizzazione più razionale e una gestione più completa degli appalti. Il Consorzio La Valdocco ad esempio, a cui appartiene la coop Pietra Alta servizi Onlus, che gestisce un lotto d’accoglienza di richiedenti asilo a Torino, comprende 12 associazioni, ognuna delle quali specializzata in un servizio specifico per soggetti svantaggiati; si va insomma dall’animazione al servizio catering, dalle pulizie all’assistenza sanitaria, tutte mansioni garantite dall’eterogeneità del raggruppamento d’imprese. Un altro esempio di tale sistema, considerabile come un vero e proprio sistema di scatole cinesi, è rappresentato dalla rete di associazioni Non solo asilo composta da ben 18 nomi tra associazioni e coop. Questo raggruppamento è composto da svariati affiliati, anche molto diversi tra loro come la Coop Orso, la Coop Alice, Acmos, Pastorale migranti, PIAM, l’ Associazione Somaalya Onlus, il Gruppo Abele e Engim Piemonte.
Un capitolo a parte meriterebbe la famosa associazione Terra del fuoco e della sua costola Babel, fondata nel 2015 da Roberto Forte, già vicepresidente di Terra del Fuoco. Questo gruppo di coop da anni si è inserito nel business della gestione di rifugiati e dei richiedenti asilo in Piemonte, anche grazie alla benedizione garantita dal fondatore ed ex presidente Michele Curto, consigliere Sel al Comune di Torino. L’associazione ha partecipato in passato, all’interno di un Raggruppamento Temporaneo d’Imprese che comprendeva anche AIZO, Liberitutti, Stranaidea, la Coop Animazione Valdocco e la Croce Rossa Italiana, al famigerato progetto “La città possibile”, un programma di distruzione del campo Rom sul Lungo Stura Lazio e di trasferimento di alcuni dei suoi abitanti in altri edifici. Il risultato finale dell’operazione è stato quello di più di 1000 sgomberati, 600 ricollocati, 255 rimpatri volontari e 2 accompagnamenti al CIE di c.so Brunelleschi. È importante notare come molte riallocazioni gestite da Terra del fuoco siano avvenute all’interno degli appartamenti fatiscenti di Giorgio Molino, il famoso “ras delle soffitte” del capoluogo sabaudo. Il notissimo palazzinaro torinese, famoso per le proprietà e per gli sfratti di centinaia di persone, da tempo si è lanciato anch’egli nel business legato all’Accoglienza Secondaria. Infatti Molino e la presidente dell’associazione L’Isola di Ariel, oltre a siglare contratti d’affitto per appartamenti indirizzati a gruppi terapeutici, si sono accordati anche per l’accoglienza dei richiedenti, come succede per la struttura di via L’Aquila a Torino. L’Isola di Ariel è anche la prima ad aver messo in scena il lavoro gratuito dei richiedenti asilo con la pulizia dei parchi e delle strade del quartiere San Donato, facendo da apripista agli accordi successivi con le aziende.
Insomma, davanti a questa descrizione parziale della situazione piemontese, i richiedenti asilo e i rifugiati oggi sembrano, per tutti, cooperative e imprenditori locali, un affare molto più redditizio delle attività passate, su cui oggi lanciarsi a capofitto.

Scarica il contributo in pdf.
Qui un approfondimento sulle lotte nei centri di accoglienza.

RADIOCANE: TOUT LE MONDE DETESTE LA POLICE - UNA CRONACA DA RENNES (FRANCIA)

riceviamo e diffondiamo:

Da qualche mese la Francia è in fiamme contro la Loi Travail. Tra i luoghi più calorosi c’è senza dubbio Rennes, di cui ci narra qui un compagno francese sentito alcuni giorni fa. Una cronaca preziosa, ancorché inevitabilmente parziale, non solo perché fatta da una prospettiva a suo modo periferica, ma anche perché le danze sono ancora aperte con una cadenza degli eventi sempre più accelerata.
ascolta:
http://www.radiocane.info/rennes/

FRONTIERE E MURI INTELLIGENTI

da Macerie
Frontiere e muri intelligenti
smartSecondo i dati forniti dalle istituzioni europee, nel 2015 più di 50 milioni di cittadini di Paesi terzi hanno visitato l’Unione Europea attraversando legalmente i valichi esterni. Tale flusso, secondo le proiezioni statistiche, è destinato ad aumentare vertiginosamente negli anni a seguire, fino a raggiungere addirittura 80 milioni di visite annuali. Lo spazio Schengen è diventato ancor più che nel passato, per varie ragioni, polo d’attrattiva per lo scambio di merci e per la transizione di numerose categorie di soggetti portatori di valori, investimenti e consumi differenti. Turisti, trasportatori, lavoratori a termine, manager, studenti, tutti ben accolti nel territorio perché visitatori temporanei e ampiamente spendibili sul mercato europeo; un’immagine speculare a quella degli immigrati in fuga.

Questo sistema di transito, tuttavia, presenta alcuni gravi difetti a causa della sua non infallibilità sul piano del controllo e della sua permeabilità al flusso irregolare. I controlli serrati alle frontiere esterne, infatti, non possono certo impedire l’entrata regolare di soggetti, che, una volta varcato il confine come turisti, potrebbero restare sul territorio illegalmente. Il passaggio delle frontiere esterne attraverso procedure legali, soprattutto permessi turistici di 90 giorni, sembra essere, a discapito di chi descrive un’Europa assaltata da barconi o da orde di fuggiaschi, il modo principale di entrata all’interno dello spazio Schengen. Proprio il fenomeno dei cosiddetti “overstayer” e l’assenza di controllo su quest’ultimi rappresenta, all’oggi, una delle tante preoccupazioni delle istituzioni nazionali e continentali.
Per sopperire a questa mancanza, le autorità europee, anche grazie all’utilizzo di nuove tecnologie, hanno iniziato a sviluppare un nuovo approccio capace di intrecciare ragioni economiche e necessità repressive, permettere il passaggio di merci e persone e tenere a bada o controllare i flussi irregolari. Il concetto di “Smart”, termine ormai di uso comune in vari settori del sociale, è venuto loro in aiuto. Esso indica l’intelligenza dei sistemi complessi nella selezione dei dati, la loro possibile autonomia decisionale, la loro articolazione e l’integrazione con l’ambiente umano. Nel caso delle frontiere, tale concetto assume una sua declinazione precisa, nata intorno alle problematiche dei valichi terrestri, ma forse generalizzabile a tutto l’approccio attuale di gestione del flusso migratorio.
L’idea dello “smart border” ha visto la luce nel 2008 all’interno di alcuni settori dell’Ue. Nel febbraio 2013 la Commissione europea presentò il primo gruppo di misure legislative volte a modificare la gestione delle frontiere esterne allo spazio Schengen. Successivamente sono stati apportati alcuni cambiamenti al testo iniziale, ma le varie discussioni tecniche, le analisi d’impatto e persino un progetto pilota hanno espresso, in ogni caso, parere positivo.
Il regolamento prodotto, chiamato anche “Smart border package”, troverà attuazione entro e non oltre il 2020.
Il predetto programma si compone di due pilastri fondamentali, ovvero due sistemi di registrazione e controllo complementari tra loro: l’RTP e l’EES. Entrambi saranno gestiti e supervisionati da un’agenzia dell’Ue chiamata Ue-LISA che si occupa della gestione dei tre principali sistemi IT su larga scala che trattano le richieste di visti, di asilo e lo scambio di informazioni nell’Ue, più precisamente: il sistema di informazione sui visti (VIS), il sistema di informazione Schengen (SIS II) e Eurodac.
L’RTP (Registred traveller programme) è un sistema di registrazione e schedatura dei cosiddetti viaggiatori abituali, coloro che varcano spesso, per motivi economicamente rilevanti, le frontiere esterne allo spazio Schengen. Come già detto, si tratta di viaggiatori portatori di un valore economico e di possibilità d’investimento: lavoratori frontalieri o con contratti a termine, manager, studenti, trasportatori. L’idea è quella di creare un data base con i dati alfanumerici e i rilievi dattiloscopici di questi soggetti, compresa un’attestazione di “non pericolosità”, allo scopo di alleggerire e rendere più veloci i controlli alla frontiera, permettendo un passaggio automatico e rapido di uomini e merci. Infatti questi soggetti registrati, avrebbero in dotazione un token, cioè una chiavetta con un codice che permetterebbe loro il passaggio automatico a valichi e aeroporti attraverso cancelli elettronici. Un sistema che già viene attuato, per i cittadini dell’Ue, in alcuni aeroporti continentali.
L’EES (Exit-Enter System) è invece un sistema di schedatura elettronica di tutti i soggetti non comunitari che entrano all’interno dello spazio Schengen con un permesso turistico valido solo 90 giorni. Al contrario di chi chiede un visto prolungato, questi non sono tenuti a rilasciare dati biometrici. Per questo la nuova registrazione proposta prevede il rilievo delle impronte digitali e dello scanner facciale, i cui dati vengono mantenuti all’interno del data base non oltre i 5 anni. Il nuovo sistema biometrico sostituirà il metodo dei timbri, che apportati sul passaporto al momento dell’ingresso, attestano le date d’entrata e d’uscita dai confini esterni.
Tale procedura, considerata oramai obsoleta, presenta numerose problematiche. I controlli manuali delle autorità sono in primis troppo lenti e il sistema cartaceo si presta a contraffazioni, può risultare illeggibile e soprattutto una parte dei soggetti entrati legalmente, distrugge il proprio passaporto per restare irregolarmente sul territorio europeo. Il sistema EES, quindi, va ad affrontare il problema dei cosiddetti “overstayer”, cioè di chi rimane all’interno dello spazio Schengen al di là della scadenza del permesso, secondo molti la stragrande maggioranza degli irregolari. Così, attraverso la schedatura biometrica le autorità frontaliere potranno informare gli Stati membri di un lista abbastanza precisa di soggetti irregolari permanenti sul territorio europeo. Questa lista, inversamente, sarà consultabile dalle autorità nazionali, in caso di bisogno. Gli effetti concreti non si fermano però solo a quanto fin ora detto, ma sfociano, come spesso accade per la gestione migratoria, nel campo della deterrenza. Il sistema di schedatura EES infatti, possedendo le informazioni biometriche degli “overstayer”, renderebbe ancora più difficoltosa la clandestinità di questi irregolari, rendendoli di fatto sempre e comunque identificabili. Questo ulteriore elemento di paura e minaccia si sommerebbe alla condizione d’irregolarità e alle possibilità di reclusione in un Cie, esaltando quindi la ricattabilità del soggetto sul mercato del lavoro.
L’idea sottostante il concetto di “smart border” è quella di confine selettivo ed intelligente, in quanto opera, nella trattazione dei dati, sia una cernita rapida delle categorie di soggetti economicamente rilevanti, a cui spetta il diritto di muoversi velocemente attraverso un corridoio preferenziale, sia amplifica la raccolta d’informazioni e di controllo sui possibili irregolari. Gli elementi che strutturano lo “smart border” sono al contempo elementi di apertura e di chiusura, di sviluppo delle transazioni e rapidità degli scambi da un lato e amplificazione securitaria dall’altro; in due parole una “selettività interessata” che tenta di coniugare profitto e sicurezza.
La chiusura di molti confini interni in Europa, allo scopo di bloccare il passaggio di centinaia di profughi provenienti dalle zone di guerra, e non solo, è stata vista da pochi come un’aberrazione dal punto di vista etico e dai più come una scelta anti-economica. Un gesto, quello di riprendere i controlli doganali interni e di erigere muri e reticolati che apporterebbe gravi danni al capitalismo nostrano ed estero. Quanto detto è senza dubbio vero e l’atteggiamento di alcuni governi contrasta nettamente con i diktat neo-liberisti. Un solo secondo d’attesa al confine è infatti monetizzabile, la merce e gli individui assumono valore nella loro rapidità di movimento, l’attesa ai varchi è così sempre e solo una perdita.
Ma siamo proprio sicuri che i muri e le reti non possano coniugarsi bene con il profitto? La risposta a tale quesito si trova, probabilmente, proprio nel concetto di “frontiera intelligente” che nella selettività dei flussi, passino essi da porti, aeroporti o valichi terrestri, e nel loro controllo tecnologico, trova la sua ragion d’essere. I nuovi sistemi sopracitati, l’RTP e l’EES, vanno indubbiamente in tale direzione. La prospettiva è quella di un “muro intelligente” che si apra solo davanti a qualcuno, gestendo a seconda dei momenti e delle necessità economiche l’entrata e l’uscita di chi bussa alle frontiere ed evitando, idealmente senza intoppi, il rallentamento delle merci. Questo scenario non si è ancora configurato, ma una riflessione è doverosa.
Immaginando cosa si nasconde dietro il nuovo regolamento Ue sopra citato, viene in mente una comparazione con un altro tipo di frontiera, quella marittima, che negli Hotspot trova il suo filtro artificiale. Essendo il criterio “smart”, un approccio intelligente perché opera una selezione interessata dei flussi, potremmo, con le giuste differenze, definire l’Hotspot un esempio di “smart border”?
L’approccio Hotspot può essere applicabile un po’ ovunque, sia esso concretizzato nelle strutture carcerarie greche, pugliesi o siciliane, sia esso minacciato dalle autorità alla frontiera del Brennero, sia esso utilizzato nella questura di Milano o progettabile sulle navi di Frontex. Esso è definibile smart in quanto selettivo ed interessato, poiché seleziona, certo in modo arbitrario e a discrezione delle autorità in loco, due categorie di soggetti: l’immigrato economico e la persona passibile di richiesta di protezione. Entrambe le categorie producono profitto, infatti, dietro tale sistema di cernita si cela un obiettivo ben preciso di valorizzazione economica dei soggetti prodotti.
La selezione operata dall’Hotspot, sfoci essa nel business legato all’Accoglienza secondaria o alla reclusione nei Cie, passi dalla creazione di un esercito d’irregolari o richiedenti asilo sfruttabili dal capitalismo privato o nei progetti dello Stato, produce sempre e comunque un valore. Un’operatività che è definibile come selettività interessata, quindi smart e, a quanto pare, fin troppo intelligente.
Scarica il testo in pdf
macerie @ Maggio 14, 2016

SFIDARE IL PRIVILEGIO: SULLA SOLIDARIETA' E L'AUTORIFLESSIONE

by hurriya
Di seguito vi proponiamo la traduzione di un articolo scritto da Dilar Dirik, compagna curda e dottoranda presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Cambridge. Pensiamo che la lettura del testo apra, nell’ottica di una crescita, delle riflessioni sulla solidarietà per rafforzare un fronte comune di lotte senza frontiere. Le dinamiche raccontate possiamo riscontrarle nel posizionamento, nei discorsi e nell’agire politico di numerosi gruppi internazionalisti occidentali ma, nella profonda critica proposta, possiamo riconoscere limiti e problemi del nostro stesso agire. Buona lettura.
Sfidare il privilegio: sulla solidarietà e l’autoriflessione
La solidarietà non è carità unilaterale praticata da attivisti privilegiati, ma un processo multidimensionale che contribuisce all’emancipazione di tutte le persone coinvolte.
Un uomo tedesco non è colpito dal progetto di democrazia di base in Rojava perché ha visto qualcosa di simile decenni fa in America Latina. Una donna francese rimprovera le donne kurde di una mancanza di preparazione durante la sua visita perché non sono organizzate come le donne afghane che lei ha conosciuto negli anni ’70. Una persona riesce a passare come un membro rivoluzionario del Rojava dopo un viaggio di una settimana e senza avere accesso a media e letteratura in qualche lingua mediorientale, ma la sua opinione è comunque considerata più legittima e autentica di quella delle persone che lottano.
Cos’hanno in comune le esperienze di queste persone?
Esse mostrano un interesse e una preoccupazione genuine, e i loro sforzi meritano il dovuto credito. Ma c’è qualcosa di più: l’elemento che sta alla base di un sistema che permette alle persone di completare la loro lista del turismo rivoluzionario – negli scorsi decenni in particolare in Palestina e Chiapas, adesso in Rojava. Questo elemento è un qualcosa che i rivoluzionari devono problematizzare attivamente: il privilegio.
Per fare chiarezza dal principio: come qualcuno che scrive quasi prettamente per un pubblico internazionale, che facilita la comunicazione e incoraggia le delegazioni in Kurdistan, io appartengo a quelle persone che fondamentalmente danno valore a questo tipo di scambio e lavoro. Ma le persone che dichiarano solidarietà e che sono in una posizione privilegiata, che permette loro di viaggiare ed essere ascoltate, hanno l’obbligo morale di usare al meglio questo privilegio. L’intenzione di questo articolo è contribuire al dibattito sui problemi che emergono quando vengono stabilite relazioni gerarchiche in nome della solidarietà.

Sfidare i privilegi
In un mondo di stati nazione capitalisti e patriarcali, considerare se stessi come cittadini del mondo e opporsi alle idee di nazioni e stati è un atto di ribellione. Tuttavia, pensarsi come rivoluzionari internazionalisti non cancella condizioni inique e privilegi. È necessario andare oltre.
Prima di tutto, c’è una serie di privilegi materiali e risorse di cui una persona beneficia: passaporti di stati che ti aiutano a viaggiare quasi ovunque; parlare lingue internazionali e possedere un vocabolario teorico che ti facilita nell’articolare e dar forma a un discorso; padroneggiare strumenti intellettuali grazie all’educazione di base, così come avere tempo, sicurezza e soldi a sufficienza per procurarsi la maggior parte di queste cose. L’assenza di guerra, morte, distruzione, evacuazione, carestia e traumi ti permette di condurre ricerche in sicurezza e comodamente, prendere decisioni e pianificare a lungo termine, vivere secondo principi senza troppi ostacoli.
Il solo fatto di avere la possibilità di sedersi a prendere un caffè, leggere su un argomento da fonti scritte nelle storiografia, teoria, lingue e epistemologia occidentale-centriche è un privilegio che la maggior parte delle persone non bianche e i lavoratori non hanno. E anche se ce l’avessero, spesso a queste persone manca un ambiente politico in cui poter discutere le loro visioni.
Il solo fatto che io stia scrivendo questo articolo altresì indica il privilegio di qualcuno che proviene da un gruppo oppresso e marginalizzato ma che, rispetto alla sua gente, ha accesso ad alcune risorse e vantaggi. Ovunque esista il privilegio, esiste la relativa responsabilità di sfidare il privilegio. Il problema non è tanto la mera esistenza del privilegio, quanto la creazione di relazioni gerarchiche e -involontariamente- l’atteggiamento paternalistico e di appropriazione nel lavoro di solidarietà, che interrompono la comprensione reciproca e l’avanzamento.
Alcuni hanno espresso il loro stupore per l’ignoranza delle persone locali riguardo lotte simili alle loro in un altro capo del mondo, e hanno tentato di rendere più tenui i discorsi delle vittime perché la loro realtà quotidiana era troppo dura per essere ascoltata dalle delicate orecchie occidentali. Altri hanno rifiutato ogni forma di auto-riflessione quando sono stati accusati di aver distorto il discorso sulla lotta delle persone attraverso narrative imposte in un modo alienante per le persone in questione, insinuando invece che le persone oppresse dovrebbero essere grate di ricevere una qualsiasi attenzione.
Il problema sta nella facilità con cui una persona privilegiata si senta in diritto di poter scrivere interi libri su un’intera regione senza averla mai visitata. È la bianchitudine maschile di intere sessioni di conferenze “radicali” sulle lotte portate avanti da persone di colore. È la famosa espressione di simpatia della persona bianca per una causa che dà a chi la sposa la possibilità di essere alla moda. È la velocità con cui le motivazioni riguardanti lotte per la vita e la morte vengono abbandonate come una patata bollente non appena queste stesse lotte diventano più complicate di quanto previsto.
Com’è conveniente per un rivoluzionario aver la possibilità di scrollarsi di dosso responsabilità e identità senza altre complicazioni! Molte persone di sinistra provenienti da nazioni privilegiate, mentre sottolineano spesso in modo militante di non rappresentare alcuno stato, esercito, governo o cultura, possono però facilmente analizzare milioni di persone come un gigantesco blocco monolitico. Cancellando i propri contesti, spesso concedono per se stessi un agire individualistico e complesso, sentendosi in questo modo piuttosto generosi e caritatevoli quando discutono tra loro su chi “meriti” supporto, mentre l’Altro sfuma in astratte identità.
I veri compagni si vedono nella notte più fredda
I modi in cui oggi la solidarietà è progettata per lo sguardo occidentale ha un altro effetto devastante sui movimenti: la competizione tra le persone in lotta per l’attenzione e le risorse. Invece di costruire legami tra loro, le persone che lottano sono costrette a combattere prima per ricevere le attenzioni della sinistra occidentale, cosa che mette le comunità l’una contro l’altra ed è distruttiva per l’internazionalismo. Come fa notare Umar Lateef Misgar, un attivista del Kashmir: è come un’evoluta forma del divide et impera di coloniale memoria.
Sopratutto il maschio bianco istruito ha il lusso e privilegio di poter visitare ogni luogo in cui è in corso una rivoluzione, di appropriarsene come preferisce, e poi di provvedere a criticarlo senza condizioni e senza sentire mai la necessità di guardare in casa propria. Spesso con un senso di possesso senza responsabilità, può avvicinarsi a livello internazionale, allontanarsi a livello locale e viceversa. La sua identità trascende l’etnicità, la nazionalità, il genere, la classe sociale, la sessualità, la fisicità, l’ideologia, perché è l’incarnazione dell’impostazione predefinita, lo status quo – egli a malapena vive o conosce il significato della devianza. Non sa che la maggior parte delle lotte inizia da una richiesta di riconoscimento, di un posto nella storia, perché è lui quello che la scrive. Così spesso non riesce ad afferrare le motivazioni rivoluzionarie oltre la teoria. È questo purismo ideologico che gli permette così facilmente di rinunciare alla solidarietà con le lotte, ed è anche forse la più grande espressione del suo privilegio: può permettersi di essere dogmaticamente, ideologicamente puro; può predicare consistenza teorica, perché il suo interesse per una lotta non è una questione di sopravvivenza ma mera attrazione. Non è obbligato a sporcarsi le mani. Può allontanare il suo sguardo dalle persone che combattono per la vita, perché non è lui quello che deve equilibrare gli ideali contro tutti i tipi di condizioni geopolitiche e socio-economiche, conflitti religiosi ed etnici, violenza, guerra, tradizione, traumi e povertà.
Ed è per questi motivi che le persone possono abbandonare una causa tanto velocemente così come velocemente l’hanno abbracciata, perché la risoluzione di errori, limiti e ostacoli che le rivoluzioni affrontano richiederebbe uno sforzo che loro non vogliono fare – discussioni teoriche o conferenze con caffè e torta sono spazi molto più comodi per le invettive radicali rispetto a quell’inferno chiamato Mesopotamia.
Quando le persone non ricevono dalle lotte reali le gratificazioni immediate, richieste dalla mentalità capitalista che hanno interiorizzato, possono lasciar cadere in fretta momenti storici della rivoluzione. L’opzione di abbandonare, di ritirarsi da una causa non appena il fascino romantico iniziale svanisce e ne emerge la crudezza, semplicemente non è disponibile per le persone che lottano per la vita o la morte. I veri compagni, dopotutto, non si vedono col tepore del sole ma nella notte più fredda.
Lotte legittime messe alla prova
Qualche tempo fa, appartenenti all’estrema sinistra hanno scritto articoli botta e risposta sul Rojava senza avere alcun contatto con la realtà sul campo, attraverso supposizioni e argomenti che erano dei non-problemi per le persone coinvolte. Presto ciò si è trasformato in una discussione profondamente orientalista interna alla sinistra occidentale, dove un uomo bianco si rivolge a un altro, senza che nessuno sia stato nella regione o abbia letto qualcosa di diverso da opinioni di altri uomini bianchi trovate online – con il Rojava utile semplicemente come metafora del Terzo Mondo su cui poter proiettare tutte le ideologie e ipotesi.
Naturalmente le analisi e la prospettiva critica internazionali sono fondamentali per i processi rivoluzionari, ma i dogmatismi, gli sciovinismi e l’arroganza sono al servizio di un obiettivo opposto. Tralasciando il fatto che queste persone erano molto lontane dall’organizzare rivoluzioni nei propri contesti, comunque si sentivano nella posizione di giudicare autorevolmente cosa fa o no una rivoluzione offrendo inoltre consigli e direttive alle persone che formano comuni autonome di donne mentre combattono l’ISIS.
In un certo senso, tale falsa rappresentazione e distorsione sono necessarie per legittimare immagini orientaliste e interventi colonialisti. Come ha elaborato Sitharthan Sriharan, un attivista Tamil, “i privilegiati di sinistra spesso, con le loro azioni, aiutano a produrre e a riprodurre le stesse forze di cui si dichiarano nemici.”
È interessante vedere come lotte legittimate nel corso di decenni dalle migliaia di persone che ne hanno preso parte, debbano esser messe alla prova del nove dalla sinistra ed essere giudicate dall’Occidente prima di essere ritenute importanti. Simili presupposti fanno male ai movimenti di liberazione, nella misura in cui si rifiutano di darne un’attenzione appropriata e un’accurata rappresentazione; possono realmente causare significativi danni politici, sociali, economici ed emotivi, perpetuare la disinformazione e delegittimare intere lotte attraverso un discorso dominato da gruppi esterni.
Queste attitudini fondamentalmente affondano le proprie radici nelle ideologie eurocentriche che hanno stabilito il loro imperialismo culturale tramite colonialismo, dogmi modernisti e capitalismo. La violenza simbolica che ritrae la storia occidentale come moderna e universale oggi si manifesta nelle forme di orientalismo nelle scienze sociali e influenza il modo in cui ampie sezioni della sinistra occidentale intendono la solidarietà.
Accorgersi del proprio privilegio
L’assunto per cui la solidarietà sia unidirezionale, qualcosa che uno dà e un altro prende, è fallace dal principio. La solidarietà oggi, specialmente nell’era dell’informazione e della tecnologia digitale, è espressa in un modo che articola una relazione dicotomica tra un soggetto attivo e pensante che “procura” solidarietà a una causa e un gruppo che può solo reagire come oggetto passivo senza il diritto di offrire un riscontro critico rispetto a quale tipo di solidarietà sia richiesto.
I distributori di solidarietà possono apparire da ovunque, cancellare i propri contesti di provenienza e autonominarsi dominatori del discorso. A loro è garantita una visione a volo d’uccello, che permette prospettive analitiche distanziate e autorità, dovuta a una supposta posizione “imparziale”. Questo crea immediatamente una gerarchia e l’aspettativa che il gruppo che riceve solidarietà debba dimostrare gratitudine e deferenza a chi la offre, ponendosi così alla mercé della persona che garantisce il supporto. Ciò spesso segna la fine della solidarietà e l’inizio della carità.
A ogni modo, i gruppi oppressi non hanno l’obbligo o la responsabilità di dar niente in cambio. Come fa notare la mia cara amica Hawzhin Azeez da Kobane: “Non dobbiamo ringraziare le persone privilegiate per essersi accorte dei loro privilegi e fare la cosa giusta. Non dobbiamo aspettarci nulla di meno da loro perché questo è il presupposto implicito che sta alla base della solidarietà.”
Le persone che si dichiarano alleate devono essere disposte a caricarsi il peso di un duro lavoro. Dovrebbero ricordare a se stesse i propri privilegi, sfidarli costantemente e annullarli per trasformarsi in strumenti capaci di amplificare le voci e i principi dei movimenti con cui affermano di essere solidali – invece di diventare la voce o l’incarnazione della lotta altrui. Non dovrebbero aspettarsi gratitudine e medaglie al valore per comportarsi eticamente, almeno non da persone marginalizzate che sono solo felici che qualcuno stia parlando della loro battaglia per l’esistenza.
Dalla carità alla solidarietà, dall’insegnare all’imparare
Il movimento di liberazione kurdo utilizza “critica e auto-critica” come meccanismi produttivi ed etici per migliore se stessi, gli altri e il gruppo. Criticare un altro significa anche essere in grado di criticare se stessi. La critica non è intesa per danneggiare gli altri, ma è fondamentalmente basata su empatia, onestà e risoluzione dei problemi.
Il lavoro solidale non immunizza di certo nessuno dalla critica. Al contrario, la richiede. Per essere davvero etica, la solidarietà si basa essenzialmente su questa. Ma, a oggi, il lavoro solidale della sinistra eurocentrica è stato largamente privo di questo tipo di critica, accentuando gli ostacoli interni alla sinistra occidentale e la sua incapacità di organizzare o persino discutere le premesse di base.
Fondamentalmente, un vero rivoluzionario è una persona che inizia un processo rivoluzionario interiore partendo da se stesso.
La solidarietà non è un progetto di carità, ma un processo orizzontale, multidimensionale, educativo e pluridirezionale che contribuisce all’emancipazione di tutte le persone coinvolte. Solidarietà significa essere allo stesso livello dell’altro, stare fianco a fianco. Vuol dire condividere competenze, esperienze, conoscenze e idee senza perpetuare relazioni basate sul potere. La differenza tra carità e solidarietà è che la prima ti definisce “stimolante” e vuole farti la lezione, mentre la seconda ti chiama “compagno”, e vuole imparare da te qualcosa. Per affrontare questi problemi, non è abbastanza l’autoriflessione per ogni individuo. In realtà abbiamo bisogno di un nuovo paradigma di solidarietà in cui sfidare sistematicamente l’appropriazione e l’abuso di potere e assicurare meccanismi di educazione reciproca e un cambio di prospettiva.
Sostanzialmente, solidarietà significa avere empatia e rispetto per le lotte degli altri, considerare se stessi come combattenti dalla stessa parte quando ci si impegna in un processo di auto-liberazione reciproca, senza ignorare i differenti punti di partenza, le esperienze, i contesti e le identità. La migliore gratificazione di una solidarietà genuina è che tutti i soggetti coinvolti imparino gli uni dagli altri come organizzarsi. Pertanto, in conclusione, come sottolineano le persone provenienti da posti come il Chiapas o il Kurdistan, solidarietà vuol dire “andare a fare una rivoluzione nel proprio posto!”.
Una politica di identità senza internazionalismo rimarrà sempre limitata, in quanto non può portare a una ampia emancipazione in un sistema globale di oppressione e violenza, così come l’internazionalismo senza il rispetto per le lotte radicate localmente rimarrà superficiale e fallimentare, in quanto incapace di riconoscere la profonda complessità delle diverse frequenze delle grida per la libertà.
Farmi le spalle larghe, rafforzerà anche voi – e questa è la sola formazione nella quale possiamo combattere contro quest’ordine mondiale sessista, razzista, imperialista, capitalista e assassino.

COS'E' UN MURO? "SUL PASSO INDIETRO DELL'AUSTRIA RISPETTO ALLA BARRIERA DEL BRENNERO"


da abbattere le frontiere

Cos'è un muro?
Sul “passo indietro dell'Austria rispetto alla barriera del Brennero”

Nella mobilitazione contro la chiusura della frontiera fra Austria e l'Italia abbiamo definito le barriere “l'emblema del nostro presente”.
Non c'è dubbio che le dichiarazioni dello Stato austriaco di costruire una barriera al Brennero hanno fatto sì che le intenzioni dei nemici di ogni frontiera si concentrassero lì. C'è un aspetto simbolico-emotivo della realtà (e della lotta) che non va trascurato, perché le sue ricadute sono estremamente pratiche.
In tal senso, la giornata del 7 maggio è stata importante, per la sua natura internazionale e la volontà di battersi che ha espresso.
I balletti politico-mediatici degli ultimi giorni meritano un paio di ragionamenti. Gli stessi fini (ignobili) si possono ottenere con mezzi diversi: il contenzioso fra autorità austriache e autorità italiane è tutto lì. Si possono controllare e respingere gli immigrati senza intralciare il transito delle merci.
Il muro è un emblema, ma un emblema ha un mondo dietro, senza il quale non funzionerebbe.
Cerchiamo di spiegare alcuni passaggi per capire come continuare a lottare contro le frontiere e il loro mondo.
Fino a metà marzo, le autorità italiane stavano adeguando le misure da prendere rispetto alla decisione austriaca di “chiudere la frontiera”. Altro che coro di protesta, come scrivono oggi i giornalisti. Le mozioni votate dal consiglio provinciale trentino, ad esempio, prevedevano di intensificare i controlli dei Tir a sud, per evitare colli di bottiglia al Brennero.
Determinare quanto i blocchi di treni e autostrada e la stessa giornata del 7 Maggio abbiano pesato sul preteso dietrofront austriaco non è facile e nemmeno particolarmente interessante. Ma non ci piace neanche passare per fessi.
Innanzitutto, i lavori per la barriera al Brennero sono solo sospesi. Un significativo aumento del flusso di immigrati e il rischio di perdere consenso a favore dell'estrema destra potrebbero cambiare la situazione. Intanto, oltre confine, il decreto legge sullo stato di emergenza e sullo schieramento dell'esercito ai confini è passato.
Ma c'è dell'altro, ed è ciò che di più conta.
Lo Stato italiano sta rafforzando la detenzione amministrativa e costruendo nuovi hotspot (centri di smistamento fra profughi da “accogliere” e irregolari da internare ed espellere).
Intanto, i controlli sull'eurocity Milano/Venezia-Verona–Monaco (OBB) sono aumentati. Siamo di nuovo di fronte ai treni dell'apartheid. A Verona sono ripresi i controlli al viso, per cui chi ha la pelle scura fa sempre più fatica a salire sugli OBB.
Il ministro dell'Interno italiano si è vantato, nella conferenza della settimana scorsa con il suo omologo austriaco, che nessun “irregolare” arriva in Austria con quei treni. Anche senza muro, dunque, la polizia del Tirolo ha ottenuto ciò che voleva. 50 poliziotti della questura di Bolzano e 60 militari sono impegnati stabilmente in funzione anti-immigrati.
È questa la frontiera in movimento che va contrastata, a partire dai suoi collaborazionisti.
Il 7 maggio è stato solo un passaggio.
Cosi come la macchina della deportazione si articola sul territorio, che anche i nemici e le nemiche delle frontiere si organizzino.

RADIOCANE: CONTRO IL NUCLEARE - ULTIME DALLA FINLANDIA

riceviamo e diffondiamo:

Da un anno sulla penisola di Hanhikivi in Finlandia la società Fennovoima, con la partecipazione del colosso russo Rosatom, ha avviato i lavori per la costruzione di una nuova centrale nucleare. Immediatamente un campeggio di protesta è nato nei pressi dell’area allo scopo di ostacolare la costruzione del nuovo reattore.
Due settimane fa la polizia è intervenuta in forze per la seconda volta per evacuare il campeggio – la prima fu a settembre – vincendo la resistenza dei presenti e catturandone diversi, di cui sei tutt’ora sottochiave. Il messaggio è chiaro: il tempo del dialogo è finito.
Di contro alcuni campeggiatori sul “dialogo” avevano le idee chiare già da qualche tempo: il 12 aprile il simpatico gruppo “Dialog Devil” firmava una macchina in fiamme sulla strada del nuovo cantiere e commentava: “That’s our dialogue and that’s what we have to say to everyone demanding dialogue with Fennovoima-Rosatom” (“Questo è il nostro dialogo e quanto abbiamo da dire a chi vuole dialogare con Fennovoima-Rosatom”).
Un amico più che di passaggio ci ragguaglia brevemente su questo frammento di lotta al nucleare in terra nordica.

ascolta:

http://www.radiocane.info/contro-il-nucleare-finlandia/

ROVERETO: SASSAIOLA CONTRO LA CASERMA DELLA POLIZIA LOCALE IN SOLIDARIETA' AGLI ARRESTATI AL BRENNERO

Apprendiamo dai quotidiani locali che, verso le 23,00 del 12 maggio, un gruppo di
anonimi ha attaccato con le pietre la caserma della polizia locale di
Rovereto: colpite le vetrate e un furgone. Sul muro davanti alla caserma
sarebbe stata lasciata la scritta: "Per gli arrestati al Brennero".


7 MAGGIO: UNA GIORNATA DI LOTTA

da abbattere le frontiere
7 MAGGIO: UNA GIORNATA DI LOTTA
Non doveva essere una giornata di testimonianza.
Non è stata una giornata di testimonianza. 
Ci sono donne e uomini che non vogliono accettare barriere, filo spinato, detenzione amministrativa, immigrati che muoiono in massa alle frontiere di terra o di mare, campi di concentramento. All'interno di una giornata di lotta internazionale – con cortei in diversi paesi e varie iniziative anche in Italia, di cui cercheremo di fare un resoconto – al Brennero varie centinaia di compagne e compagni si sono battuti. Difficile immaginare un contesto più sfavorevole di un paesino di frontiera con una sola via di accesso. Quelle e quelli che sono venuti lo hanno fatto col cuore, consapevoli che nella battaglia contro l'Europa concentrazionaria che gli Stati stanno costruendo – di cui il confine italo-austriaco è un piccolo pezzo, il più vicino a noi – si paga un prezzo. L'aspetto più prezioso sta proprio qui: nel coraggio come dimensione dello spirito, non come fatto banalmente “muscolare”. 
Siamo fieri e fiere di aver avuto a fianco donne e uomini generosi, con un ideale per cui battersi.
In tutte le presentazioni della giornata del 7 maggio – e sono state tante – siamo sempre stati chiari: se ci saranno le barriere, cercheremo di attaccarle, altrimenti cercheremo di bloccare le vie di comunicazione, a dimostrazione che il punto per lorsignori non è solo erigere muri, ma gestirli; sarà una giornata difficile.
Lo scopo della manifestazione era bloccare ferrovia e autostrada. Così è stato. Va da sé che se tra una manifestazione combattiva e il suo obiettivo si mette quella frontiera costituita da carabinieri e polizia, il risultato sono gli scontri.
Siamo riusciti a salire al Brennero senza aver chiesto il permesso a nessuno perché lo abbiamo fatto collettivamente, in treno e con una lunga carovana di auto. Abbiamo preso – senza pagarlo – un treno Obb, società ferroviaria responsabile di controlli al viso e di respingimenti. Per gli altri, solo la determinazione a reagire con prontezza ha distolto gli sbirri dai controlli all'uscita dell'autostrada. Le auto che non erano nella carovana sono state purtroppo fermate e i compagni a bordo non hanno potuto raggiungere il Brennero.
Quella di sabato è stata una manifestazione contro le frontiere anche nel senso che erano presenti tanti compagni austriaci.
Non sono certo mancati limiti organizzativi e di comunicazione. Tutt'altro. Ma questa è una discussione tra compagne e compagni.
Ci rivendichiamo a testa alta lo spirito del 7 maggio, con la testarda volontà di continuare a lottare contro le frontiere e il loro mondo. 
La solidarietà nei confronti dei compagni arrestati, che ora sono di nuovo con noi, è stata calorosa. Nel carcere di Bolzano, i cui detenuti hanno risposto con entusiasmo al presidio di solidarietà, i quattro compagni sono stati accolti come fratelli.
Ciò per cui ci scandalizziamo rivela sempre chi siamo.
Per noi l'orologio danneggiato della stazione del Brennero ha questo significato: che si fermi il tempo della sottomissione.


Abbattere le frontiere