fonte
riceviamo e diffondiamo:
primo maggio '15
"Una Milano particolare"
Cui prodest?
Qualcuno si è fatto questa giusta domanda.
Anche dopo parecchi giorni dal primo maggio milanese si continua a parlare dell'uso della violenza, del capitalismo, di Expo, di sfruttamento, di rabbia, di rivolta.
Certo, è una situazione buona anche per chi cavalca questi accadimenti per i suoi fini, siano essi di visibilità (es. Casarini), politici (es. Pisapia) o populisti (es. Salvini).
La canea mediatica è qualcosa di cui tenere conto e discutere.
E' sempre giusto porsi delle domande, interrogarsi sulla propria prospettiva e modalità di azione. Solo pochi anni addietro era tutto molto diverso: non c'erano i social network e la pervasività dei mezzi di informazione di massa non era paragonabile a quella odierna. A 15 anni dal G8 di Genova, col suo lascito sul movimento rivoluzionario, bisogna pensare attentamente a come riportare anche nelle piazze una reale conflittualità, riuscendo ad allargare la partecipazione e la condivisione di saperi e pratiche. Lo scopo della repressione è sempre quello di bloccare l'azione rivoluzionaria e gli arresti sono solo uno dei metodi utilizzati per giungere a questo scopo. Più in generale, spesso subdolamente, essa cerca di spingerci all'inazione e a farci diventare poliziotti di noi stessi, invitandoci a credere che non sia possibile, o addirittura non sia lecito, mettere in pratica alcune azioni, sia dentro che fuori dai cortei.
Ma la domanda iniziale è utile anche invertirla. A chi dispiace una giornata come quella del primo maggio milanese? A chi non giova? A quale rivoluzionario possono dare fastidio uno spezzone che attacca la polizia, quattro macchine, qualche banca e qualche vetrina? Sì dirà, a ragione, che semmai è stato troppo poco, o che sono esplosioni di rabbia troppo rade, o che bisognerebbe riportare nel quotidiano tanta rabbia e tanta forza. Si può discutere dell'utilità della distruzione nel processo di produzione, si può discutere della sempre più rapida distruttibilità dei prodotti (vedi Gunther Anders, L'uomo è antiquato II, I prodotti), si può discutere, come in parte faremo, del consenso, dell'opinione pubblica e del libero pensiero.
Ma solo a chi intende governare e gestire il dissenso e la rabbia può dare fastidio una giornata come questa.
A ragione, a ben vedere.
In Italia, ma possiamo parlare anche di Europa per essere meglio compresi, esiste una componente radicale e irriducibile a ogni recupero. Di questa radicalità va preso atto, c'è, è nei fatti.
I numeri sono sempre relativi, non è la conta che ci interessa, è la tendenza. Lo spezzone autonomo e radicale ha attratto numerosi partecipanti al corteo che si sono sentiti di prendere parte, di parteggiare. Chi parla, spesso a sproposito, di consenso e pratiche includenti, dovrebbe tenere conto di questo fatto.
Ecco un possibile superamento del nodo consenso/dissenso: la partecipazione attiva.
Viviamo in un'epoca afflitta, tra le altre cose, da un opinionismo diffusamente basato su poco e che poco ci azzecca con la vita reale. Tuttavia con tale incongruenza ci riguarda tutti, trattandosi della maggioranza silenziosa che supporta lo stato di cose presente.
L'opinione pubblica è pensata e studiata a tavolino, lo scalpore e lo scandalo sono incredibili fabbriche di opinioni. Si pensi al caso delle due ragazzine rom pagate dalla giornalista per dire una serie di assurdità. Milioni di condivisioni, milioni di opinionisti indignati, milioni di opinioni create e pensate ad arte.
Si pensi anche al ragazzo intervistato poco dopo gli scontri.
L'opinione pubblica è il contrario del pensiero libero.
Come superare questo ostacolo? Come andare oltre le condivisioni da social network e le opinioni create ad hoc nel giro di un minuto?
Ragionare sul senso di questa giornata in prospettiva, per evitare di trovarci in futuro in un vicolo cieco o, piuttosto, per dotarci degli strumenti per superare il muro del vicolo cieco.
Se da una parte è indiscutibile oramai la simpatia di fette della popolazione per chi dalle parole passa ai fatti, dall'altra è altrettanto importante fare sì che si parli con questa parte di popolazione, che non ci si chiuda a gingillarsi per la giornata appena trascorsa o sull'estetica dello scontro. Uno degli errori più gravi sarebbe quello di non cogliere la predispozione crescente allo scontro, al conflitto. I quartieri popolari e i territori resistenti sono il campo di battaglia quotidiano in cui invertire il comune sentire, secondo il quale non si può mai vincere. Giornate come il primo maggio milanese sono un'iniezione di fiducia nel dimostrare che non è necessario essere un milione per riuscire a prendersi le strade, allo stesso modo non c'è bisogno necessariamente delle masse per fermare una grande opera che devasterà ulteriormente il nostro territorio o per resistere all'ennesima ondata di sfratti. Quello di cui c'è bisogno è intelligenza ed energia, e tornare a pensare in grande anziché limitarsi a proteggere il proprio orticello.
Non c'è mai lunedì
Verso dove stiamo andando? Questa una delle domande di chi nel primo maggio milanese ha letto un momento importante per il movimento.
Attaccare il centro finanziario e di potere di Milano è sicuramente un'azione comprensibile a chi è sotto sfratto, a chi vede il proprio territorio devastato per grandi opere finanziate dalle banche, da chi subisce quotidianamente la violenza del denaro, da chi ha una visione critica e d'insieme della nostra società e del suo funzionamento.
E' altresì vero che rimane uno scarto da colmare, nei modi di volta in volta considerati più opportuni, nei confronti di quei soggetti delusi e depressi da questa società, di chi non ne può più del solito tran tran, di chi è annoiato a morte dalla prospettiva di passare dieci anni a scuola per imparare a lavorare e passare una vita a barcamenarsi per sbarcare il lunario.
Creare una prospettiva rivoluzionaria nel quotidiano, vivere la rivoluzione oggi, dimostrare che un mondo senza lavoro obbligatorio (lo è nella misura in cui tutto nella società ha un costo ed è esclusivo per chi se lo può permettere) è non solo auspicabile, ma possibile.
Tornare a colpire gli orologi e lo scorrere del tempo sempre uguale a se stesso, organizzarsi e prendersi beffe delle organizzazioni, assaporare il gusto della solidarietà e cacciare chi fomenta le divisioni e la guerra tra poveri.
Prendere parte al processo già in atto, perché una parte di questa società ha tutto l'interesse che l'ordine continui a regnare, l'altra che tutto crolli al più presto. Decidere da che parte stare è il primo passo. Ma ovunque sono i rassegnati, vera base dell'accordo tra le parti, i miglioratori dell'esistente e i suoi falsi critici. Ovunque, anche nella nostra vita, che è l'autentico luogo della guerra sociale, nei nostri desideri, nella nostra risolutezza come nelle nostre piccole, quotidiane sottomissioni. (2)
Nelle metropoli come in provincia, ovunque è possibile.
Autorganizzarsi e difendersi per non pagare più il prezzo di una vita e di una società imposte. Pensare l'improbabile e osare l'impossibile.
Questa la grande sfida del nostro tempo, questa la grande avventura.
La rivoluzione sarà una festa, non di poche ore, ma per la vita.
Alcuni varesott pianta casott
Note:
1) SALVATORE RICCIARDI, Maelstrom scene di rivolta e autorganizzazione di classe in Italia (1960-1980)
2) Ai ferri con l'Esistente, i suoi difensori e i suoi falsi critici
riceviamo e diffondiamo:
primo maggio '15
"Una Milano particolare"
Vincere non è arrivare primi a una corsa o
segnare più gol di quanti ne ricevi. Se tutto resta come prima non è
vincere, è accontentare qualche cretino. Vincere dev'essere qualcosa che
assomigli alla danza degli indiani d'America intorno alle macerie
fumanti di un insediamento di coloni europei. Solo cenere deve restare
perchè non si edifichi più alcuna mostruosità. Ma qui di resti bruciati
se ne sono visti troppo pochi! (1)
Cui prodest?
Qualcuno si è fatto questa giusta domanda.
Anche dopo parecchi giorni dal primo maggio milanese si continua a parlare dell'uso della violenza, del capitalismo, di Expo, di sfruttamento, di rabbia, di rivolta.
Certo, è una situazione buona anche per chi cavalca questi accadimenti per i suoi fini, siano essi di visibilità (es. Casarini), politici (es. Pisapia) o populisti (es. Salvini).
La canea mediatica è qualcosa di cui tenere conto e discutere.
E' sempre giusto porsi delle domande, interrogarsi sulla propria prospettiva e modalità di azione. Solo pochi anni addietro era tutto molto diverso: non c'erano i social network e la pervasività dei mezzi di informazione di massa non era paragonabile a quella odierna. A 15 anni dal G8 di Genova, col suo lascito sul movimento rivoluzionario, bisogna pensare attentamente a come riportare anche nelle piazze una reale conflittualità, riuscendo ad allargare la partecipazione e la condivisione di saperi e pratiche. Lo scopo della repressione è sempre quello di bloccare l'azione rivoluzionaria e gli arresti sono solo uno dei metodi utilizzati per giungere a questo scopo. Più in generale, spesso subdolamente, essa cerca di spingerci all'inazione e a farci diventare poliziotti di noi stessi, invitandoci a credere che non sia possibile, o addirittura non sia lecito, mettere in pratica alcune azioni, sia dentro che fuori dai cortei.
Ma la domanda iniziale è utile anche invertirla. A chi dispiace una giornata come quella del primo maggio milanese? A chi non giova? A quale rivoluzionario possono dare fastidio uno spezzone che attacca la polizia, quattro macchine, qualche banca e qualche vetrina? Sì dirà, a ragione, che semmai è stato troppo poco, o che sono esplosioni di rabbia troppo rade, o che bisognerebbe riportare nel quotidiano tanta rabbia e tanta forza. Si può discutere dell'utilità della distruzione nel processo di produzione, si può discutere della sempre più rapida distruttibilità dei prodotti (vedi Gunther Anders, L'uomo è antiquato II, I prodotti), si può discutere, come in parte faremo, del consenso, dell'opinione pubblica e del libero pensiero.
Ma solo a chi intende governare e gestire il dissenso e la rabbia può dare fastidio una giornata come questa.
A ragione, a ben vedere.
In Italia, ma possiamo parlare anche di Europa per essere meglio compresi, esiste una componente radicale e irriducibile a ogni recupero. Di questa radicalità va preso atto, c'è, è nei fatti.
I numeri sono sempre relativi, non è la conta che ci interessa, è la tendenza. Lo spezzone autonomo e radicale ha attratto numerosi partecipanti al corteo che si sono sentiti di prendere parte, di parteggiare. Chi parla, spesso a sproposito, di consenso e pratiche includenti, dovrebbe tenere conto di questo fatto.
Ecco un possibile superamento del nodo consenso/dissenso: la partecipazione attiva.
Viviamo in un'epoca afflitta, tra le altre cose, da un opinionismo diffusamente basato su poco e che poco ci azzecca con la vita reale. Tuttavia con tale incongruenza ci riguarda tutti, trattandosi della maggioranza silenziosa che supporta lo stato di cose presente.
L'opinione pubblica è pensata e studiata a tavolino, lo scalpore e lo scandalo sono incredibili fabbriche di opinioni. Si pensi al caso delle due ragazzine rom pagate dalla giornalista per dire una serie di assurdità. Milioni di condivisioni, milioni di opinionisti indignati, milioni di opinioni create e pensate ad arte.
Si pensi anche al ragazzo intervistato poco dopo gli scontri.
L'opinione pubblica è il contrario del pensiero libero.
Come superare questo ostacolo? Come andare oltre le condivisioni da social network e le opinioni create ad hoc nel giro di un minuto?
Ragionare sul senso di questa giornata in prospettiva, per evitare di trovarci in futuro in un vicolo cieco o, piuttosto, per dotarci degli strumenti per superare il muro del vicolo cieco.
Se da una parte è indiscutibile oramai la simpatia di fette della popolazione per chi dalle parole passa ai fatti, dall'altra è altrettanto importante fare sì che si parli con questa parte di popolazione, che non ci si chiuda a gingillarsi per la giornata appena trascorsa o sull'estetica dello scontro. Uno degli errori più gravi sarebbe quello di non cogliere la predispozione crescente allo scontro, al conflitto. I quartieri popolari e i territori resistenti sono il campo di battaglia quotidiano in cui invertire il comune sentire, secondo il quale non si può mai vincere. Giornate come il primo maggio milanese sono un'iniezione di fiducia nel dimostrare che non è necessario essere un milione per riuscire a prendersi le strade, allo stesso modo non c'è bisogno necessariamente delle masse per fermare una grande opera che devasterà ulteriormente il nostro territorio o per resistere all'ennesima ondata di sfratti. Quello di cui c'è bisogno è intelligenza ed energia, e tornare a pensare in grande anziché limitarsi a proteggere il proprio orticello.
Non c'è mai lunedì
Verso dove stiamo andando? Questa una delle domande di chi nel primo maggio milanese ha letto un momento importante per il movimento.
Attaccare il centro finanziario e di potere di Milano è sicuramente un'azione comprensibile a chi è sotto sfratto, a chi vede il proprio territorio devastato per grandi opere finanziate dalle banche, da chi subisce quotidianamente la violenza del denaro, da chi ha una visione critica e d'insieme della nostra società e del suo funzionamento.
E' altresì vero che rimane uno scarto da colmare, nei modi di volta in volta considerati più opportuni, nei confronti di quei soggetti delusi e depressi da questa società, di chi non ne può più del solito tran tran, di chi è annoiato a morte dalla prospettiva di passare dieci anni a scuola per imparare a lavorare e passare una vita a barcamenarsi per sbarcare il lunario.
Creare una prospettiva rivoluzionaria nel quotidiano, vivere la rivoluzione oggi, dimostrare che un mondo senza lavoro obbligatorio (lo è nella misura in cui tutto nella società ha un costo ed è esclusivo per chi se lo può permettere) è non solo auspicabile, ma possibile.
Tornare a colpire gli orologi e lo scorrere del tempo sempre uguale a se stesso, organizzarsi e prendersi beffe delle organizzazioni, assaporare il gusto della solidarietà e cacciare chi fomenta le divisioni e la guerra tra poveri.
Prendere parte al processo già in atto, perché una parte di questa società ha tutto l'interesse che l'ordine continui a regnare, l'altra che tutto crolli al più presto. Decidere da che parte stare è il primo passo. Ma ovunque sono i rassegnati, vera base dell'accordo tra le parti, i miglioratori dell'esistente e i suoi falsi critici. Ovunque, anche nella nostra vita, che è l'autentico luogo della guerra sociale, nei nostri desideri, nella nostra risolutezza come nelle nostre piccole, quotidiane sottomissioni. (2)
Nelle metropoli come in provincia, ovunque è possibile.
Autorganizzarsi e difendersi per non pagare più il prezzo di una vita e di una società imposte. Pensare l'improbabile e osare l'impossibile.
Questa la grande sfida del nostro tempo, questa la grande avventura.
La rivoluzione sarà una festa, non di poche ore, ma per la vita.
Alcuni varesott pianta casott
Note:
1) SALVATORE RICCIARDI, Maelstrom scene di rivolta e autorganizzazione di classe in Italia (1960-1980)
2) Ai ferri con l'Esistente, i suoi difensori e i suoi falsi critici
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