Il nostro ambiente cambia a grande velocità. E allo stesso tempo, in maniera lenta ma inesorabile, quasi inavvertitamente, cambiamo anche noi. L'ambiente ci cambia. Influenza i nostri atti e i nostri gesti, la concezione del nostro tempo, i nostri movimenti, i nostri desideri e i nostri sogni.
Guarda questa città. È un luogo in uno stato di costante
trasformazione. Il potere vi erige nuovi centri commerciali e carceri,
ne occupa i quartieri con migliaia di nuove telecamere e commissariati
supplementari, vi costruisce loft per i ricchi e spinge i poveri fuori
dalla città, vi estende i trasporti pubblici affinché chiunque ogni
giorno riesca comunque ad arrivare puntuale al proprio posto
nell'economia. Eppure — e i difensori del sistema lo sanno fin troppo
bene — l'occupazione del territorio con tutte queste infrastrutture
resta in fondo relativa. Nello spazio di qualche notte selvaggia, una
folla che insorge potrebbe tecnicamente parlando ridurre tutto in
cenere. Proprio per questo la vera occupazione — l'occupazione duratura
in grado di garantire che l'oppressione sopravviva sotto forme
differenti attraverso la storia — si trova altrove. È nelle nostre
teste. Noi cresciamo in un ambiente e senza pietà questo ambiente cerca
di determinare la nostra immaginazione. È questo lo scopo che i potenti
teorizzano quando non risparmiano né tempo né denaro nel trasformare la
città di Bruxelles. Fondamentalmente non vogliono solo che le nostre
attività quotidiane siano al servizio di questo ambiente, ma anche che i
nostri pensieri siano circoscritti dalle sue cornici. Cosicché i nostri
sogni restino sempre all'interno delle gabbie in cui l'ambiente ci
tiene reclusi: cittadino, consumatore, impiegato, prigioniero, piccolo
delinquente/commerciante marginale... È qui che si situa la vera
vittoria del potere: nel momento in cui viene cancellata ogni memoria
delle rivolte che demolivano quelle gabbie. In questa città, non molto
tempo fa, quel genere di rivolte sconvolgevano la routine quotidiana.
Gli sbirri venivano attirati in agguati, i commissariati erano
attaccati, la videosorveglianza veniva sabotata, i gabbiotti della
metropolitana erano messi fuori uso, i quartieri erano diventati
pericolosi per ogni tipo di divisa, c'erano rivolte in carcere ed echi
solidali nelle strade... Lo Stato preferirebbe che si dimenticassero
tutte queste possibilità che vengono colte sempre meno. Una volta
dimenticate, cesserebbero semplicemente di esistere. È una battaglia
incessante per tenere aperte tali possibilità, per spingerle più in là,
per inventarne di nuove e sperimentarle nella pratica. È una lotta
costante per l'immaginazione, che può essere il combustibile di un fuoco
incontrollabile contro l'oppressione, oppure soffocare ogni possibile
focolaio. L'azione diretta in tutte le sue forme è la nostra arma. Come
piede di porco che forza le porte dell'immaginazione, essa rende il
pensiero pronto e l'agire in condizione di combattere.
Non c'è che il gioco offensivo fra i due che possa renderci davvero
pericolosi per l'ordine costituito. Immaginiamo ciò che appare
impossibile e facciamo ciò che appare impensabile.
[La cavale, contre la prison et son monde]
Da Finimondo
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