riceviamo e diffondiamo:
Rovereto: basta morire per i padroni
Partiamo
da un'immagine. In un torrido giovedì pomeriggio d'agosto una camionetta
della Celere e agenti in tenuta antisommossa stazionano sotto una
sontuosa villa, in un viale a qualche decina di metri dalla piazza
principale di Rovereto. La villa è di Gianni Marangoni, direttore della
Marangoni pneumatici.
All'inizio
del viale ci sono circa centocinquanta persone che urlano "Assassino"
all'industriale e "Servi" ai celerini. Mentre qualcuno affigge manifesti
"Carmine è stato ucciso dalla Marangoni, basta morire per i padroni",
qualcun altro scrive con la pennellessa sull'asfalto "Marangoni
assassino. A Carmine", altri ancora trasformano "Viale dei Colli" in
"Viale Carmine Minichino, operaio ucciso dalla Marangoni". Nel variegato
gruppo c'è anche la moglie di Carmine, operaio bollito vivo mentre
lavorava a 50 gradi, con dieci minuti di pausa su otto ore, nel reparto
presse della Marangoni, il 21 luglio.
Si tratta
del passaggio più significativo del corteo che si è svolto a Rovereto
il 6 agosto. A parte la Celere sotto casa di un industriale, di per sé
un corso accelerato di dottrina dello Stato (e del capitalismo)
impartito anche ai più distratti, raramente nella storia – almeno
recente – di Rovereto una manifestazione è stata così unita nei
contenuti e nelle emozioni. Nei manifesti, nelle scritte, negli
interventi, negli slogan, nessun giro di frasi, nessuna ambiguità.
"Basta morire per i padroni" è suonato non come un generico appello, ma
come un attacco preciso a Marangoni, così come all'assessore
all'industria Olivi (PD), alle istituzioni, alla medicina del lavoro
pagata dall'azienda, a Cgil. Cisl e Uil, tutti complici nello
sfruttamento dei lavoratori e nell'assassinio legalizzato di Carmine.
Per un paio d'ore, solo espressioni di rabbia, solo ragionamenti di
lotta. La composizione del corteo rifletteva il percorso con cui ci si è
arrivati.
Un gruppo
di compagne e compagni, il 28 luglio, blocca la strada davanti alla
Marangoni, paralizzando il traffico per un'ora. Lo scopo è presto detto:
dividere in due la città, "fra chi accetta e chi non accetta simili
ingiustizie. Affinché chi non le accetta lo dica, lo urli, lo dimostri".
Nei giorni successivi se ne parla nelle assemblee no tav, nel giro
degli amici e solidali di Stefano Frapporti (morto anche lui un 21
luglio...), con i lavoratori e le lavoratrici del supermercato Orvea di
Trento. L'intesa è fra tutti immediata: indire un'assemblea pubblica il 4
agosto e un corteo il 6. Non mancano i dubbi: la città è quasi deserta,
gli operai della Marangoni hanno paura persino a prendere un volantino
al cancello della fabbrica, i tempi sono stretti ma... bisogna scendere
in strada ora, senza aspettare, con chi ci sta. Nel frattempo arriva una
commovente lettera del figlio di Carmine che ringrazia per la
solidarietà; la moglie di Carmine ci dice che sarà al corteo.
L'assemblea del 4 agosto è molto partecipata e ci si capisce al volo.
Occorre dare un segnale, indicare con chiarezza le responsabilità,
cominciare da noi stessi e non da quello che possono o vogliono fare gli
operai della Marangoni, essere da stimolo, autorganizzarsi. Si concorda
che non ci saranno bandiere in piazza e si decide anche di fare la
scritta davanti alla villa di padron Marangoni (che in Trentino
controlla banche, assessori, stampa, edilizia, sindacati... e che
nessuno osa criticare). Un sindacato di base indice lo sciopero per il 6
al fine di agevolare la partecipazione al corteo. I padroni
dell'azienda annunciano ad arte 50 licenziamenti futuri, un ricatto ad
orologeria che fa abbassare le teste già chine: al corteo non verrà
alcun operaio della fabbrica.
Quella
del 6 agosto è stata una manifestazione tranquilla nelle modalità ma
inequivocabile nei contenuti. La sensazione è che abbia lasciato il
segno e indicato un certo modo di lottare, come hanno dimostrato i vari inviti a continuare sulla strada intrapresa, con alcune idee per settembre.
Certe
porte si spalancano quasi sempre in pochi. Ma non si sa mai in anticipo
quanti altri le varcheranno. Il segreto è cominciare.
Di seguito uno dei volantini distribuiti durante il corteo
Cominciamo
Se
non si è ricchi o privilegiati, per campare bisogna vendere le proprie
capacità fisiche e intellettive in cambio di un salario. In mezzo alle
più sofisticate innovazioni della società tecnologica c'è qualcosa che
non è mai cambiato: lo sfruttamento della forza-lavoro. Il profitto
consiste ancora nel far lavorare il più possibile gli esseri umani e nel
pagarli il meno possibile. E se questo presuppone carichi di lavoro
sempre più pesanti e condizioni sempre più precarie e disumane, tanto
peggio per i lavoratori. È il capitalismo, signore e signori.
Di questo
è morto Carmine, lavorando a cinquanta gradi con dieci minuti di pausa
su otto ore in un reparto della Marangoni. Non è una fatalità, non è un
tragico errore. È un assassinio legalizzato. A finire come Carmine sono
più di mille all'anno in Italia e milioni nel mondo. Là dove la classe
operaia è in vertiginoso aumento (Brasile, Cina, India...), i lavoratori
muoiono come le mosche – e le guardie armate all'entrata o nei raparti
delle fabbriche tolgono all'espressione "guerra del capitale" ogni senso
metaforico. Dal momento che i padroni comprano ormai la forza lavoro a
livello mondiale, aprendo e chiudendo le fabbriche a seconda di quanto
costa la merce-uomo nei diversi Paesi, la concorrenza si fa anche qui da
noi spietata e la solidarietà arranca. Si accetta tutto pur di
lavorare. Si continua a lavorare anche quando un compagno muore. Si teme
persino di prendere un volantino se i sorveglianti del padrone ti
osservano.
Senza una
ripresa molto dura delle lotte non usciremo dall'angolo. E molte
illusioni dovranno crollare. Il ruolo giocato dalla Provincia di Trento
rispetto alla Whirlpool, alla Martinelli, all'Arcese, alla Malgara, alla
Gallox, alla Marangoni... dimostra ampiamente che le istituzioni sono
sì, come si pretende, un arbitro tra aziende e lavoratori, ma uno di
quegli arbitri che tengono ferme le braccia dell'operaio mentre il
padrone lo gragnola di colpi a bordo del ring.
Se esistesse davvero quella cosa chiamata "denaro
pubblico", dopo gli 86 milioni di euro che l'assessore Olivi ha dato in
dieci anni a Marangoni potremmo dire che i capannoni di quest'ultimo
sono nostri; di più, con tutti quei soldi avremmo potuto mantenere gli
operai al bar per non farci inquinare l'aria e i polmoni incenerendo
pneumatici. Ma quella dei cosiddetti amministratori del cosiddetto bene
comune è una gigantesca balla. Classe dirigente e classe dominante si
producono e si sostengono a vicenda. Basta cominciare a smascherare gli
interessi di un industriale per vedere da che parte stanno i partiti, i
sindacati, i giornali, la magistratura, le forze dell'ordine.
Un
operaio è morto bollito vivo. Dove sono i presìdi sindacali? Dove sono
le interrogazioni in consiglio comunale o provinciale? Tanto solerti nel
chiedere quanto "denaro pubblico" si spende per i pasti o le ricariche
dei cellulari di qualche decina di profughi, tutti zitti quando si
tratta di chiedere se con gli 86 milioni di euro provinciali Marangoni
non poteva per caso comprare qualche impianto di ventilazione; tutti
zitti nel chiedere come un industriale possa aumentare i ritmi di lavoro
e parlare allo stesso tempo di esuberi, oppure come possa ricevere i
contributi per la cassa integrazione e allo stesso tempo assumere
interinali; oppure come accada quella magia per cui l'unico giorno
all'anno in cui l'inceneritore della Marangoni ha i filtri apposto è
quando arriva il controllo degli ispettori...
E allora
diciamoci le cose come stanno. Vendicare la morte di Carmine significa
ribadire che l'ingiustizia ha nome, cognome e indirizzo, cioè far
sentire a Marangoni, a Olivi, a Cgil, Cisl e Uil che non scorderemo le
loro responsabilità.
Ma
diciamo anche altro. E cioè che senza lotta non c'è argine al
peggioramento delle condizioni di lavoro, e nemmeno ai licenziamenti;
che la paura è nel nostro campo e non sarà facile cacciarla in quello
del nemico. Cominciamo da noi e da quei pochi raggruppamenti di
resistenza presenti dentro e fuori i posti di lavoro affinché si
allarghino e si radicalizzino. Affermiamo nei fatti che chi tocca uno,
tocca tutti. Dimostriamo nei fatti che la solidarietà è più importante
delle tessere, delle sigle, delle organizzazioni.
Battiamoci,
assieme a chi ci sta, su obiettivi circoscritti, sapendo e dicendo che
nelle lotte si può perdere domani ciò che si è conquistato oggi. Fino a
quando non avremo abbattuto dalle fondamenta un sistema sociale
maledetto e assassino.
compagne e compagni
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