Carcere
Alberto Savinio
Non ho una grande esperienza delle prigioni. Una volta sola in vita mia fui
in prigione, e per sole due ore, e in una prigione militare. Questo avvenne a
Ferrara, nell'estate del 1915, nella prigione della caserma San Benedetto,
«perché ero uscito di caserma senza permesso regolare». (La verità è che, avendo
io quella mattina un gran mal di capo e mancando la caserma sia d'infermeria sia
di farmaci, ero andato fino alla farmacia di fronte a prendermi una pasticca di
piramidone). Due ore di prigione non sono molte ma mi sono bastate egualmente a
farmi conoscere il “senso” della prigione. Ho saputo anzitutto che cosa
significa il sentirsi reclusi, e in luogo per di più che i carcerieri si
studiano di rendere più scomodo e antipatico che possono, privandolo in gran
parte dei due principali elementi di vita che sono l'aria e la luce; perché il
carcere ha il fine dichiarato di punire il delinquente e di metterlo in
condizione di non nuocere alla società, ma ha anche quello non confessato di
logorare la sua salute e dunque in parole povere di ucciderlo. Ho saputo oltre a
ciò che cosa significa la promiscuità forzata e l'impossibilità di isolarsi e
nascondersi a un prossimo col quale «non si vuole avere rapporti» (in
quell'unica cella eravamo in quattro o cinque); ho saputo che cosa significa la
rinuncia al pudore più elementare e lo schifo di quel recipiente posato in mezzo
alla cella e adibito ai bisogni corporali dei carcerati. Ho conosciuto infine il
sentimento dell'iniquità e che cosa si risente quando l'autorità d'improvviso e
arbitrariamente si abbatte su te, e senza esaminare la tua presunta colpa
s'impadronisce della tua persona, arresta la tua libertà, rende vana la tua
volontà, impossibile la tua difesa, e ti punisce. Non sono state sufficienti
tuttavia quelle due ore a farmi sperimentare i vari sistemi che il carcerato
deve mettere in pratica per riuscire a sopportare la vita del carcere e, se non
è un bruto, per non morire mentalmente; e i principali dei quali, al dire di
alcuni uomini mentali che del carcere hanno avuto la sventura di farsi
un'esperienza ben più dura della mia, sono il moto e il lavoro. Kropotkin dice
nelle sue memorie che nella piccolissima cella nella quale per più anni la
polizia zarista lo tenne chiuso, si era abituato a fare giornalmente tanti passi
tra muro e muro pari a quattro chilometri di marcia. In un passo dei suoi
ricordi della Casa dei Morti Dostoiewski scrive che «girare la ruota
era difficile e faticoso, ma anche un'ottima ginnastica», e in un altro passo
che «trasportare mattoni in ispalla gli piaceva molto, perché aumentava la sua
forza fisica». Ma la più commovente confessione di carcerato che io conosca è
quella che Luigi Settembrini fa nella prefazione alla sua eccellente versione di
Luciano, ove dall'ergastolo di Santo Stefano scrive in data del settembre 1858:
«Per cinque anni vi ho lavorato continuamente fra tutte le noie, i dolori e gli
orrori che sono nel più terribil carcere, in mezzo agli assassini ed ai
parricidi: e Luciano, come un amico affettuoso, mi ha salvato dalla morte totale
della intelligenza».
Al lavoro si riconosce una ragione morale prima che pratica. Il proverbio
ingenuamente dice che il lavoro nobilita l'uomo e Faust alla fine della sua
avventura è per mercé del lavoro che si redime, non della preghiera né del
pentimento. Se non del carcere, io del lavoro ho una grande esperienza. Io
lavoro molto, posso dire che lavoro sempre. E questo continuo lavoro mi fa
passare il tempo sempre più velocemente e mi dà una sempre maggiore felicità. Ma
questa continua necessità di lavoro che cosa nasconde? Che cosa vuol far
dimenticare? È dunque l'uomo un carcerato e la vita un grande carcere?
[Nuova Enciclopedia, 1977]
da finimondo.org
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