Riceviamo e pubblichiamo questo volantino distribuito al
corteo del 15 Marzo 2014 a Roma da alcuni compagni e compagne
La repressione.
Il discorso più comune che sentiamo ripetere
in ambito di movimento è che con l’inasprirsi delle condizioni di vita e con
quella che viene chiamata “crisi” o “austerity”, lo stato sia costretto a
rispondere con la repressione , condannando gesti legittimi che puntano alla
riappropriazione di alcuni diritti basilari per la vita di ognuno. Il fatto che
queste pratiche, che si iscrivono nella classica dialettica politica e nel
confronto con le istituzioni, vengano poi condannate, ci viene presentato come
qualcosa che desta stupore. L’equazione è presto fatta: all’aumentare
dell’austerità aumentano le lotte, all’aumento delle lotte risponde una dura quanto
illegittima repressione. Dal nostro punto di vista, pensare la repressione come
una semplice reazione è un grande errore di prospettiva, uno sguardo troppo
parziale e poco aderente alla realtà. Oggi il sistema capitalista mette in atto
diverse operazioni di gestione che investono e indirizzano le nostre vite e
quelle repressive ne sono solo una parte, che di volta in volta, a seconda
della situazione, prendono forme diverse. Se vediamo la repressione solamente
nel poliziotto che ci manganella o nello stato che ci incarcera siamo fuori
strada. La gestione e il controllo capitalista non sono garantiti infatti solo
dalle uniformi ma anche dai modelli di bellezza propagandati dalle pubblicità,
dalla partecipazione della cittadinanza alle ricerche di mercato tramite i
social media e il crowd business, dalle vacanze preconfezionate, dalla
moltiplicazione degli psicofarmaci, dalle tecnologie “green” che nascondono
l’antico accaparramento delle risorse naturali. Coinvolgere e valorizzare il
contributo dei dipendenti/cittadini, veicolandone il potenziale creativo e
produttivo al solo funzionamento della macchina capitalista è più conveniente
per lo stato rispetto all’uso sistematico e sfrenato della forza fisica. Ciò
che abbiamo di fronte, il capitalismo e la democrazia, ci persuadono, ci
alimentano e ci producono ancora prima che reprimerci. Le stesse lotte sociali,
se non si pongono questi problemi, rischiano di perdere in efficacia. Inoltre
legare la questione repressiva esclusivamente ai movimenti di carattere
politico è un grave errore. Come è noto i reati legati a quella che viene
definita micro-delinquenza, sono quelli che riempiono oggi le carceri. Tutti
quei comportamenti sociali che non rientrano nel meccanismo del consumo e della
produzione vengono sempre più demonizzati. Ignorare questi dati significherebbe
creare una pericolosa distinzione tra reati comuni e reati politici.
Legalità, legittimità, diritto e
resistenze.
Si è
sentito dire, dopo le ultime azioni repressive, che si sta oltrepassando il
limite di una democrazia già ristretta … in realtà, a ben vedere, quello che
abbiamo di fronte è il normale funzionamento del regime democratico. Quel
regime di governo che non ha solo la potenza del divieto, ma che produce
libertà e diritti all’interno di paletti ben definiti, al di là dei quali c’è
la polizia e la galera. Lo vediamo in modo inequivocabile con gli ultimi
arresti agli attivisti NoTav e con le accuse di terrorismo. Quando l’opposizione
è reale, quando si contrastano concretamente le decisioni democratiche, la
risposta è feroce. In questo panorama, come è possibile invocare un strano
“diritto alla resistenza”? Come è pensabile una concreta opposizione fatta a
colpi di diritti nuovi o riconquistati che siano? Chi dovrebbe riconoscerci
questi diritti? Ad uno sguardo più attento, la macchina capitalista si
ristruttura anche a partire dalle critiche che gli vengono mosse. Il valore
aggiunto che ogni lotta porta con sé, quando viene riassorbito nella sfera del
diritto, può divenire evanescente, se non addirittura contro-rivoluzionario.
Ogni processo che punta ad essere costituente deve oggi fare i conti con una
delle peculiarità più importanti del sistema capitalista, cioè la sua capacità
di recupero. Una lotta che voglia cambiare lo stato di cose presenti quando si
pone come obiettivo ultimo l’acquisizione di un diritto scambia per vittoria l’integrazione
nel sistema poiché ciò che produce la nostra società non è solo la negazione
dei diritti ma anche ogni processo costituente che li richiede. Il diritto non
si può rovesciare con un nuovo diritto, ma solo costruendo un nuovo immaginario
fatto di nuove parole d’ordine e di una rinnovata radicalità. È necessario
riacquisire un rapporto diretto con l’agire rivoluzionario,un sentire rivoluzionario,
pena il continuare a girare a vuoto in molteplici istanze vertenziali che non
sempre vanno nella direzione di un sostanziale cambiamento.Si sente spesso da
parte dei movimenti il lamento che ci ripete che siamo noi a essere nel giusto
e che la lotta diventa legittima solo come conseguenza di un’ingiustizia
sociale fatta di sfruttamento e condizioni di vita al limite. Così la legalità
che sancisce questo stato di cose diventa un ostacolo e per contingenza, non
possiamo far altro che superarlo per riconquistare una condizione più
dignitosa. Per questo il discorso sui diritti ritorna con forza: “chiediamo più
diritti per avere più giustizia”, come se la giustizia fosse qualcosa che
appartiene ancora all’ambito della giurisprudenza. Dal maxi-processo contro i
NoTav, a quello per gli scontri del 15 Ottobre, alle ultime incarcerazioni per
terrorismo, risulta sempre più evidente come l’uso del diritto sia
discrezionale fino a diventare una vera e propria farsa. Fare delle lotte
sociali un propulsore per la conquista di diritti negati è miope e poco
concreto. Diritto e legalità sono le forme classiche della gestione del
conflitto di classe. E’ molto più facile rapportarsi ad uno sciopero regolamentato
e riconosciuto come diritto che alla potenza di una conflittualità che si
esprime in maniera autonoma e senza mediazioni istituzionali. Le 179 denunce
arrivate in poco più di tre mesi di picchetti e scioperi ai lavoratori della
logistica ne sono un esempio lampante. Nessun discorso sulla legittimità
e la giustizia può diventare concreto se non si ha la capacità di mettere in discussione tutto il sistema che di diritti e legittimità continua ad alimentarsi. Non siamo così ingenui da non vedere l’importanza di alcune battaglie che si situano nella sfera del diritto ma non è questo il punto. Si tratta, come abbiamo detto, di creare un immaginario diverso, capace di concretizzare una forma di vita che si ponga immediatamente al di là del meccanismo economico/giuridico della riproduzione del capitale e in conflitto con esso.
e la giustizia può diventare concreto se non si ha la capacità di mettere in discussione tutto il sistema che di diritti e legittimità continua ad alimentarsi. Non siamo così ingenui da non vedere l’importanza di alcune battaglie che si situano nella sfera del diritto ma non è questo il punto. Si tratta, come abbiamo detto, di creare un immaginario diverso, capace di concretizzare una forma di vita che si ponga immediatamente al di là del meccanismo economico/giuridico della riproduzione del capitale e in conflitto con esso.
Solidarietà.
C’è un
altro mito da sfatare. Si sente spesso dire che “bisogna rispondere alla
repressione portando avanti le lotte”. Niente di più vero, ma allo stesso tempo
ovvio e banale, e soprattutto insufficiente. Ovviamente non si tratta di
separare la risposta alla repressione dalle lotte stesse, o assegnarle un ruolo
privilegiato. È necessario però comprendere le caratteristiche particolari che
si inscrivono in questo ambito. Diciamo che la nostra arma più importante è la
solidarietà, ma al momento è un’arma scarica, che si accende sporadicamente in
modo reattivo e solo in alcune occasioni. Se le cose stanno così la situazione
impone una riflessione conseguente. Chi vorrebbe difendere le istituzioni
democratiche, restaurarle in un rinnovato patto sociale non fa altro che perdere
tempo e minacciare ogni possibilità reale di cambiamento. Non essendoci più
interlocutori, non essendoci altro che singolarità esposte ai vari attacchi
della classe padronale piuttosto che una classe a essa opposta e compatta, la
repressione si combatte nello scegliersi e nel percepirsi in completa rottura
con l’esistente. Detto in altri termini, solo in un processo rivoluzionario,
che la faccia finita con i problemi del riconoscimento, del diritto, sia
in termini di legalità sia in quelli di legittimità, è possibile sviluppare
l’unica arma in grado di ricompattare le fila dei dispersi: la solidarietà. La
solidarietà è ciò che fa percepire i diversi uniti in una medesima lotta; è ciò
che crea un reale allargamento poiché i movimenti di opinione sono passeggeri,
mentre “la solidarietà di classe è per sempre”; è quella che fa affrontare la
galera e i tribunali a testa alta, col cuore non afflitto; è ciò che mette in
elaborazione le esperienze singole e le fa diventare riflessione e
consapevolezza collettiva, comune; perché non è uniformità, non degrada tutta
le differenze ad un’unica soluzione ma le conserva e le implementa. E’ ciò che
destituisce la presa e la potenza avversaria che contro i solidali non sa come
agire. Solo se questa solidarietà si diffonde e si radica sarà possibile
“lottare ancora”, e fare delle nostre lotte la risposta più efficace, in grado,
cioè, di “liberare tutti”.
COMPAGNI E COMPAGNE
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