Una delle superstizioni più diffuse del nostro tempo è che lo Stato
sia una specie di provvidenza capace e disposta a soddisfare i bisogni,
gli interessi e le aspirazioni di tutti coloro che, per numero, per
ricchezza o per abilità, riescono a farsi ascoltare dagli uomini che ne
esercitano il potere.
In un certo senso, ciò può essere vero per alcune categorie
privilegiate che lo Stato può soddisfare a spese delle moltitudini
diseredate ed operose. Ma non può mai essere vero né per la grande
maggioranza né per la totalità dei cittadini.
E ciò per due ragioni fondamentali: primo perché lo Stato non ha se
non quel che riceve, o, per meglio dire, confisca ai sudditi; se
restituisse a questi tutto quel che ha confiscato, la sua esistenza non
sarebbe materialmente possibile; e se lo fosse, diverrebbe inutile.
Secondo, lo Stato è sempre un organismo creato dalla minoranza
privilegiata a difesa e tutela dei propri privilegi, e la sua missione
non è già di estendere a tutti i benefici inerenti ai monopoli dei
pochi, ma di assicurare a questi la parte maggiore e migliore dei frutti
del lavoro di tutti.
Si comprende, quindi, che una minoranza di privilegiati —
industriali, commercianti, banchieri, agricoltori, burocrati — ricorra
allo Stato per ottenere vantaggi speciali: tariffe protettive, sussidi,
agevolazioni e favori d’ogni specie. Lo Stato è, per la sua origine
stessa e nell’interesse della propria conservazione, oltre che per le
sociali inclinazioni delle persone che lo amministrano, sempre disposto a
soddisfare queste esigenze. Di soddisfarle è appunto la sua funzione.
Il loro costo non importa: sotto forma di tasse, d’imposte, carovita,
confische e gabelle, lo Stato sa di poter sempre estorcere al grande
pubblico, i cui oneri si riversano poi invariabilmente sulla parte
produttrice della popolazione, quanto e più che non sia necessario a
soddisfare le esigenze di questi gruppi privilegiati, per quanto enormi
possano essere.
Ma quando allo Stato, in cerca di protezioni o di favori, si
rivolgano le masse lavoratrici, la cosa è affatto diversa. Lo Stato non
esiste mai, in nessun tempo, in nessun luogo e in nessun caso, per
assicurare favori e protezione a questa più numerosa parte della
società. Le masse diseredate hanno, in ogni Stato, la funzione
inderogabile di produrre. Di produrre figli al minor costo possibile,
cioè nelle più miserevoli condizioni materiali che siano disposte a
tollerare, per la continuità della specie, per la continuità del regime,
per la sicurezza dello Stato, per la sua gloria, per la sua grandezza,
per le sue conquiste nel mondo. Di produrre ricchezza, cioè di lavorare
assiduamente a fabbricare cose, a fecondare terreni, scavare miniere,
solcare mari, costruire città, con assiduità instancabile, docili agli
ordini del padrone, senza sussulti e senza rivolte, durante il più alto
numero possibile di ore giornaliere, di giorni ogni anno, in compenso di
mercedi il più possibile esigue.
Questa è la funzione delle masse diseredate in ogni regime
autoritario; e se la religione esiste per persuaderle che il loro
destino fu segnato da Dio, l’obbligo preciso dello Stato è di vigilare
con la severità delle sue leggi, con la vigilanza dei suoi gendarmi, con
la violenza delle sue armi, che non vengano meno all’esercizio normale e
costante di questa funzione.
In regime schiavista lo Stato adempierà a questo suo obbligo,
delegando al negriero autorità di vita e di morte sul lavoratore; mentre
in regime capitalistico questa autorità sarà affidata alla sferza
ancora meno pietosa della fame. Ma il risultato è il medesimo; e dove e
quando alla sferza implacabile di questo negriero terribile il
diseredato tenti di sfuggire, passando sopra ai sacri divieti della
proprietà privata, l’ordine capitalista gli avventa contro la mole
immensa delle sue leggi penali, lo afferra e lo scaraventa nei suoi
ergastoli espiatori, i quali, in pieno secolo ventesimo, ricordano
fedelmente le origine schiaviste della società contemporanea.
Si dica borghese, si dica socialista, si dica comunista od altro,
questa è la funzione dello Stato. Le denominazioni, i programmi, le
pretese umanitarie, le concessioni superficiali, non hanno mai potuto e
non potranno mai fare altro che mascherarla con maggiore o minore
insuccesso.
A qual pro, allora, invocare dallo Stato la protezione dei
lavoratori, quando si sa che protezione non può dare, che non può in
ogni caso dare a loro alcun sollievo, attenuarne lo sfruttamento,
assicurarne il benessere, alleviarne la servitù o la miseria, perché lo
Stato esiste appunto e soltanto per imporre ai diseredati questi
flagelli, onde sia garantito al privilegio lo sfruttamento del lavoro?
Non diventa questa devozione dei lavoratori verso lo Stato, per cui
non sembrano più capaci di muovere un passo senza chiedergliene il
permesso, per cui non osano più elevare una rivendicazione senza
invocarne il nulla-osta, per cui non ardiscono più sperare fuorché nella
sua paterna tutela, non diventa questa universale adorazione dello
Stato la più perniciosa delle catene che tengono le masse diseredate
sottomesse allo sfruttamento del privilegio, e all’ordine politico che
n’è il presidio?
E dove si dovranno cercare le molle del progresso sociale, gli
araldi della libertà, il lievito ribelle dell’emancipazione sociale, se
le vittime dell’ordine politico ed economico esistente non sanno più
sperare in se stesse, se persistono nell’ignorare la propria forza, se
non conoscono altra volontà che quella dei loro governanti, i quali
sono, per scelta e per funzione, servitori fedeli del capitalismo
dominante?
Bisogna che questa superstizione sia smascherata, sradicata dalle
menti ottenebrate della moltitudine operosa, prima che il progresso
sociale riprenda la sua ascesa.
[L’Adunata dei Refrattari, n. 24 del 15 giugno 1935]
(dall'estero) quanto facendo ricerca sull'Adunata voglio ringraziare, fosse col mio povero italiano, questo website per aver pubblicato quest'articolo. Primo, perché l'ho trovato molto interessante -rispetto alle ancora odierne illusioni, specialmente nel paese dove abito, quanto alla funzione protettrice (?) dello Stato contro gli eccessi (?) del Capitale. E secundo perché... mi era fuggito, fin'adesso : non è cosi facile leggere tute le copie di un giornale che visse per 49 anni, dal 1922 al 1971... Sinceramente
RispondiEliminaLuc Nemeth, Parigi