17 giugno 2015

MIGRANTI A TIBURTINA VALLEY - CONSIDERAZIIONI DI UN COMPAGNO

Fonte
da hurrya.noblogs.org

L’11 maggio scorso, venivano sgomberate circa 400 persone da una baraccopoli in via delle messi d’oro a Ponte Mammolo, quartiere nel quadrante nord-est di Roma.
Lo sgombero è avvenuto di mattina presto, a venire avvisate sono state esclusivamente alcune associazioni che nel campo ci lavoravano e che hanno avuto l’accortezza di dirlo unicamente ai propri “assistiti”.
Prima una montagna di vigili urbani con le buone, poi i celerini con le bastonate ed infine le ruspe a seppellire sotto un cumulo di macerie gli averi di coloro che lì ci vivevano da più di dieci anni.
Una schiera di politici, pettinati e profumati, a farsi fotografare di fronte a quello che è stato, a detta loro, “lo smantellamento di un ghetto, dove vivevano in duecento, di diverse nazionalità, in condizioni insopportabili per una città come la nostra dove nessuno dovrebbe vedersi privato della dignità personale”.
Peccato però che in questo “ghetto” vivevano esattamente il doppio delle persone e che l’alternativa (il centro di accoglienza BAOBAB) proposta dal comune di Roma, “in cui veder rinascere la propria dignità personale”, ha una capienza di soli 100 posti, ma ne ha promessi 170.
Dormiranno quindi nel centro BAOBAB 174 persone stipate anche sul suolo del cortile esterno, con i vari obblighi che l’ ”accoglienza” impone.
Dormiranno quindi nel mezzo del parcheggio di fronte alla baraccopoli circa 200 persone, la maggior parte delle quali in transito, ossia che sono riuscite a non farsi prendere le impronte a Lampedusa e che vogliono evitare di farlo prima di riuscire a superare le frontiere del nord Italia.
Questa condizione impone loro di tentare di evitare la polizia, quindi molti di loro si ri-materializzeranno solo nel pomeriggio dopo lo sgombero, una volta accertata la ritirata delle truppe d’occupazione, delle ruspe e dei politicanti.
Coloro che parlano un minimo di inglese o di italiano sono pochi e chi detiene una buona conoscenza delle lingue riveste automaticamente una posizione di potere rispetto agli altri.
Parlando unicamente con chi si riesce a capire e non potendo avere altri strumenti di comprensione, è difficilissimo intendere quali siano scelte o posizioni collettive piuttosto che spinte individuali.
Sta di fatto che i tentativi embrionali di organizzarsi dal basso, non per mettere “una toppa” alla falla del problema dei migranti, ma per ingrandire la crepa, per creargli un problema che possa imporre loro di riflettere due minuti in più prima di uscire dalla questura in sella ad una ruspa, sono lenti e complicati.
Proposte di lotta, supportate dai pochi compagni e compagne che hanno scelto di affrontare e ragionare alla svelta in una situazione piovuta dall’alto, si concentrano nel creare un problema, i bisogni restano un ricatto forte e un’arma delle organizzazioni  umanitario/assistenziali.
Proposte che naufragheranno definitivamente contro lo scoglio delle promesse del sistema assistenziale che, con qualche giorno di ritardo, si fa vivo e, sbandierando ipotesi di sistemazioni dignitose, di assegnazioni di alloggi per “gli stanziali” (ovvero coloro che, trovandosi qui da più tempo, sono anche gli unici a conoscere un poco di italiano), inizia a far serpeggiare nel parcheggio degli sfrattati l’ombra delle catastrofiche conseguenze di reagire alla violenza dello Stato e lottare.

Ovviamente nessuna delle promesse fatte sarà mantenuta e quindi quel parcheggio si trasforma, grazie all’assistenza di varie associazioni umanitarie che spaziano da Prime, alla Comunità di Sant’Egidio, passando per la Caritas e i Cavalieri di Malta, in una piccola tendopoli che, all’ora dei pasti, si riempie dei vari senza-tetto di zona.

Questo è esattamente l’epilogo sperato da coloro che hanno effettuato lo sgombero: fare campagna elettorale sulla riqualificazione del degrado, buttare per strada 200 poveracci che tanto, col tempo e con l’aiuto delle associazioni, si troveranno un’altra baracca in cui stare.

I giorni passano, i ragazzi e le ragazze di transito, principalmente somali ed eritrei, vanno e vengono, ormai gira la voce che il posto non è più sicuro.
Molti iniziano a fermarsi direttamente nei pressi della stazione tiburtina, si tratta soltanto di qualche giorno, solo l’attesa di trovare o di farsi spedire i soldi del biglietto per il treno verso il nord.

Intanto nelle sfarzose stanze del parlamento europeo si litiga sulle quote di distribuzione dei migranti, si discute di distribuirsi 20.000 persone dall’Italia e 15.000 dalla Grecia. Numeri, ovviamente solo numeri per loro, numeri che, tra l’altro, non rappresentano che una briciola dei 500.000 profughi disposti a sfidare la morte per fuggire da quei territori resi infernali dalla sete devastatrice creata dal nostro “benessere occidentale”.
Eccoli i “nostri politici”, tutti puliti e profumati, prepararsi al vertice europeo del 25 e 26 giugno.
Di sicuro saranno tutti d’accordo a rafforzare con altri 60 milioni di euro la Frontex, l’armata di difesa delle frontiere europee. Tutti d’accordo anche a finanziare l’UNHCR nell’espellere i profughi per reinsediarli nei campi esistenti nei “paesi terzi”.
Intanto l’accordo non si trova ed in Germania ci sono i preparativi per accogliere i 7 Grandi signori della terra, quindi al diavolo il trattato di Schengen, frontiere sigillate.
Questo è il motivo per cui alla stazione di Milano e a quella di Roma Tiburtina la situazione inizia a farsi fastidiosa, le immagini di ragazzi e ragazze nere che si lavano alle fontanelle della stazione stonano negli schermi dei nostri televisori lcd. Bisogna trovare il modo di cacciarli in dei luoghi più remoti della città, si tratta, esattamente in linea con la proposta europea di istituire dei campi profughi nei “paesi terzi”, di mettere la polvere sotto il tappeto, di rendere invisibili gli indesiderati.
Ecco quindi le motivazioni che si celano dietro il rastrellamento di polizia del pomeriggio dell’11 giugno alla stazione Tiburtina a Roma. Centinaia di poliziotti in assetto anti sommossa a rincorrere, con i manganelli in mano, coloro che momentaneamente avevano trovato riparo sotto i ponti della tangenziale che sormonta la stazione. L’”ottimo” risultato della giornata saranno 18 persone fermate e più di 300 migranti che sono scappati verso il centro BAOBAB.
L’assessore alle politiche sociali di Roma Capitale, all’indomani del rastrellamento sosterrà: “Stiamo arginando, per quanto possibile, i disagi alla popolazione attraverso i servizi della sala operativa sociale del Comune, insieme al II Municipio, alla rete del volontariato…”.
L’indomani due camionette di celere si presentano davanti al centro BAOBAB, si ricomincia la fuga. La polizia sostiene che i migranti non dovrebbero sostare all’esterno del centro, all’interno parlano di un passaggio diurno di circa 700 persone (ne potrebbe accogliere dignitosamente un centinaio). La polizia se ne va, i ragazzi e le ragazze tornano ad affollare i marciapiedi di via cupa. Gli operatori del centro dicono che per il 16 giugno, giorno in cui dovrebbe cessare il blocco del trattato di Schengen, la situazione dovrebbe tornare alla “normalità”.
Ma in cosa consiste questa “normalità” del centro BAOBAB e perchè alcuni ragazzi eritrei che abbiamo conosciuto dopo lo sgombero della baraccopoli non hanno mai accettato un posto letto all’interno di questo centro. A loro dire le condizioni igieniche dei bagni e dei materassini sono indecorose e, come se non bastasse, il boss del centro Daniel Zagghai chiede anche un “aiuto” economico agli ospiti.

Per avere ulteriori strumenti di analisi dobbiamo fare un salto nel passato.
All’alba del 18 Agosto del 2004 venne sgomberato quello che fu chiamato dalla stampa Hotel Africa, “Kerba” da chi lì ci viveva, una sorta di villaggio composto da più di 500 migranti di diversa provenienza creato all’interno di un plesso abbandonato delle FS.
Al suo interno c’erano spazi di socialità completamente autogestiti dagli immigrati, nel contesto di una situazione precaria, con la luce assicurata dai generatori, pochi bagni per tanta gente e l’acqua per lavarsi scaldata sui fornelli.
Tutto questo, secondo il lessico veltroniano, doveva essere trasferito, ufficialmente per assicurare una sistemazione più dignitosa ai richiedenti asilo. Ufficiosamente perché l’Hotel Africa andava demolito nell’ambito del progetto del nuovo snodo dell’Alta Velocità della stazione Tiburtina e di interramento della tangenziale est. L’operazione di trasferimento, le cui modalità furono coordinate da Luca Odevaine (all’epoca vice-capo di gabinetto di Veltroni e personaggio di spicco all’interno dell’inchiesta denominata “mafia capitale”) riempì il sindaco di orgoglio: “È un risultato importante per la città, perché rappresenta un esempio di civiltà. Da oggi Roma realizza un modello innovativo d’accoglienza”.

Fu proprio per accogliere duecento sfrattati del Kerba che l’ex vetreria di via Cupa fu trasformata in un centro di accoglienza, il Baobab, che il comune diede in gestione al consorzio Eriches di Salvatore Buzzi (altro personaggio di spicco all’interno dell’inchiesta denominata “mafia capitale”).
Già dal primo ottobre un centinaio di eritrei scapparono dal centro e tornarono ad occupare una vecchia scuola in via della Bella Villa. Il perché lo spiegò Manuel: “Come faccio a vivere con un pasto al giorno? Perché alle nove di mattina devo essere messo alla porta e tornare dopo le sei? Perché non posso cucinarmi una colazione? Perché devo andare in giro con un solo vestito senza la possibilità di fare niente?”.

Questa la genesi della “normalità” del centro BAOBAB, questo il motivo per cui molti ragazzi e ragazze si sono rifiutate di andare a dare i soldi a Daniel Zagghai.
Tra l’altro, quel “nuovo modello di accoglienza” di cui parlava Veltroni la mattina del 18 agosto 2004, aprì le porte, nel settembre del 2005, di un altro centro di accoglienza sito sulla via Tiburtina, il centro di via Scorticabove; centro che sarà la scintilla che provocherà l’esplosione della prossima “emergenza” in questo quartiere.

Questa casa d’accoglienza fu creata per “ospitare” i resistenti del Kerba, profughi sudanesi che non accettarono il 18 agosto 2004 le soluzioni alternative proposte da Veltroni e che decisero di lasciare il capannone delle FS solamente un anno dopo, dando fiducia alla promessa che avrebbero potuto gestirsi la struttura in cui li avrebbero mandati. Conosciamo bene il valore della parola data da un politicante.

I rifugiati furono sbattuti in una palazzina a due piani in mezzo agli outlet e alle slot machine di una zona artigianale a San Basilio, all’epoca senza allaccio del gas, senza acqua calda e a volte anche senza quella fredda, data in gestione all’Arciconfraternita tramite il consorzio “Casa della Solidarietà”.
Oggi vivono in una sorta di autogestione non riconosciuta: “Qui dentro ci passano bicchieri di plastica, forchette e carta igienica. Al resto ci pensiamo noi: pulizie, cucina, spesa, biglietti dell’autobus”.
Il Comune di Roma sostiene che la convenzione con l’Arciconfraternita per la gestione del centro ha un costo di oltre 500mila euro l’anno.

Il 30 maggio scorso scadeva il contratto di affito dell’immobile, il Comune non ha intenzione di continuare a pagarlo e, dopo aver minacciato lo sgombero immediato, ha concesso da uno a due mesi di tempo agli “ospiti” per trovarsi una soluzione alternativa.

La Danesi, assessore alle politiche sociali la pensa così:”Se una comunità si aggrega ben venga ma non con le risorse dell’accoglienza. Il dipartimento accoglierà le persone che versano in uno stato di vulnerabilità psico-fisica. Molti altri, dopo dieci anni di assistenza da parte del sistema di accoglienza, ormai hanno trovato lavoro ed è ineluttabile la chiusura di un centro che da troppo tempo è gestito in regime di affidamento diretto e sembra fuori dalla possibilità di un effettivo controllo delle presenze da parte del dipartimento“.

Quindi, nonostante che i 5 milioni di euro usciti in 10 anni siano andati a finire nelle casse della proprietà dello stabile e dell’Arciconfraternita, le 120 persone che li vi abitano sono considerate responsabili dello sperpero delle risorse dell’accoglienza. Quindi, in un momento in cui la città sta per esplodere, si vogliono buttare in mezzo alla strada altre 120 persone.

Fortunatamente queste persone non ci stanno, anche se i due mesi di tempo concesso non sono una casualità, perchè effettuare uno sgombero ad agosto (come successe ai tempi dell’hotel Africa) è molto più semplice da gestire per la questura, gli abitanti hanno deciso di resistere, stanno facendo i picchetti e pensando a quali possono essere gli scenari futuri.

Di fronte alla volontà politica di continuare a creare ed a gestire l’“emergenza” migranti, gli abitanti di scorticabove hanno la loro proposta: «da li non ce ne andiamo».

Se il termine “emergenza” definisce un momento critico, quello dei migranti, fenomeno endemico di una società che trae il “benessere” dei propri privilegiati dallo sfruttamento devastante dei più poveri, è un problema sistemico. Ogni considerazione su tale questione, non può prescindere da una critica radicale del sistema che ci sfama. Questo ragionamento porta a comprendere quanti limiti abbia un tipo di approccio assistenziale. Le migliaia di progetti di integrazione, anche se in alcuni casi portati avanti da persone di buon cuore, in realtà sono utili a mettere delle “toppe”, sono parte della gestione dell’emergenza che, in un periodo di emergenze permanenti, vuol dire essere parte del sistema stesso.

Eccoci dunque di nuovo ad affrontare gli interrogativi che la realtà ci pone e ci porrà di fronte con sempre maggiore crudeltà. In un contesto che, per questioni sociali, linguistiche e culturali, è estremamente complesso, in che modo riuscire ad essere un serio problema per coloro che dalle emergenze ne traggono profitto? In che modo riuscire a scoprire le complicità che ci legano tra sfruttati talmente differenti? In che modo agire senza correre il rischio di scadere in dinamiche puramente assistenziali?

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