riceviamo da mail anonima e diffondiamo:
1 Maggio – dopo l'evento
E' passato ormai qualche tempo dal corteo No expo di Milano, e potrebbe essere il momento per condividere alcune riflessioni critiche su quella giornata, sulla lettura che qualcuno ne ha dato, e soprattutto sulle modalità con le quali ha deciso di esprimersi la parte più “conflittuale” del corteo. I vari contributi fatti uscire riguardo quello che è successo hanno mostrato infatti, oltre alla consueta eccessiva preoccupazione circa la canea televisiva e giornalistica che segue certi eventi, una certa pochezza di contenuti unita alla scarsa propensione all'autocritica. Bisognerebbe invece, secondo chi scrive, abbandonare ogni preoccupazione riguardo alla narrazione del potere, e ricominciare a parlare tra di noi, per non ritrovarsi tristemente a rispondere alla farneticazioni dei media. L'interlocutore di questo contributo non vuole essere né il potere, né il cittadino indignato, né i possibili ribelli di domani, ma i sovversivi che covano ORA i loro sogni alla dinamite e che sono costantemente alla ricerca di sempre nuovi ed efficaci modi per sabotare quest'esistente.
Questo testo vuole essere quindi un contributo alla riflessione e al dibattito.
Il Primo Maggio milanese ha sicuramente costituito (insieme ad EXPO, poiché ormai celebrazione e contestazione camminano sempre a braccetto) l'evento italiano dell'anno, il corteo più fotografato e filmato degli ultimi tempi; un segnale, come l'ha voluto leggere qualcuno, o forse meglio, un'espressione di questo periodo, che condensa molti dei limiti e delle contraddizioni dell'ambiente sovversivo della peninsula italica. E come molti altri momenti di conflitto tra l'esistente e i suoi nemici esso può mostrare, a chi le volesse vedere, molte cose circa il presente che stiamo vivendo e attraversando, e per questo una lettura disincantata e soprattutto critica ne può trarre lezioni preziose.
Il primo elemento che è balzato subito agli occhi è stato il ruolo dei media nella faccenda milanese. Essi hanno infatti dato un possente contributo al recupero in fatto di senso di quella giornata.
Certo fa parte della natura dei media fornire una lettura distorta e assolutamente parziale (la parte della ragion di Stato) dei momenti di conflitto sociale, al fine di disinnescarne le potenzialità di diffusione e riproduzione, per cui non c'è certo di che stupirsi dell'immensa mareggiata di stronzate che sono state scritte e dette intorno al Black Bloc che si è visto all'opera a Milano il primo di Maggio di quest'anno. Un fattore è però importante riconoscere e da sottoporre a riflessione: l'imponente spettacolarizzazione degli scontri e della “devastazione” e la conseguente creazione dell'evento conflittuale di importanza mediatica internazionale. Questo elemento non è di certo nuovo, ma ha acquistato con la giornata milanese un'imponenza rilevante.
Questo è stato possibile anche perché il blocco nero si è prestato in quella situazione alla spettacolarizzazione della sua presenza e delle sue pratiche, aprendo in questo modo la strada al recupero del potere. E per quanto l'idea di dar spettacolo non fosse di certo nelle intenzioni di quanti ne hanno partecipato (almeno non di tutti), per quanto per molti non contasse tanto “comunicare” a chicchessia l'esistenza di una minuscola minoranza di individui disposta a mettersi in gioco quanto piuttosto il far più danni possibile e far saltare il teatrino dell'inaugurazione del più atteso evento mondiale, forse sul palcoscenico ci si è ugualmente infilati a capofitto. La ripetizione del copione del contro-summit, dei 4 teppistelli che rovinano la festa, della “devastazione” di 4 vetrine, come l'indignazione della società civile e le solerti promesse che ripetono “qualcuno pagherà” assicurando che “si sta facendo il possibile”, si inserisce perfettamente nello spettacolo previsto, questa volta perfettamente inscenato dal potere italiota. Tutto quel giorno a Milano era pronto ad accogliere la devastazione del black bloc, come si attende il passaggio di una star illustre sul tappeto rosso di una celebrazione.
Quello che si è visto andare in scena quel pomeriggio non è stato un contro-evento, ma un evento nell'evento, seguendo passivamente ancora una volta l'agenda del potere, che su questi momenti ha costruito un intero immaginario di aspettative collettive (comprensibili tra i cittadini-consumatori, ma che non risparmiano di attrarre anche quegli ambienti cosiddetti sovversivi). Insomma, la sensazione di essere esattamente dove il nostro nemico voleva che noi fossimo è stata forte, e chi l'ha provata sa per certo che non è piacevole, anzi. Ci si sente come con le brache calate, di fronte a centinaia di flash fotografici.
Quel giorno a Milano c'erano troppi giornalisti, troppi occhi indiscreti, troppi sciacalli pronti a banchettare con le vite degli altri il giorno dopo, troppi zombi smartphone-forniti pronti a condividere attraverso l'etere ogni possibile fotogramma degli scontri, pronti a catturare ogni immagine con la voracità di chi calma finalmente una dipendenza troppo a lungo repressa. E questo, è ovvio, non solo fornisce una quantità pericolosa di informazioni, foto e video utili alla repressione, ma contribuisce anche alla narrazione degli eventi messa in atto dal potere. Quest'ultimo infatti al giorno d'oggi coinvolge in maniera attiva il buon cittadino che, come tanti free-lance d'assalto, con i suoi commenti, i contributi video e le foto, crede così di partecipare alla ricostruzione veridica della giornata.
Non è certo privo di contraddizioni attaccare i luoghi simboli del capitalismo, vandalizzare l'arredo urbano, scontrarsi con la polizia prestando il fianco al tutto il loro codazzo di infami catturatori di immagini, salariati o no che siano. Per inceppare contemporaneamente sia la strategia repressiva del potere sia il processo di sublimazione della realtà non sarebbe male considerare sia i giornalisti che i solerti bravi cittadini che li imitano alla stessa stregua della polizia che si sta attaccando.
La mediatizzazione delle nostre attività sovversive dovrebbe essere rifiutata fermamente, poiché i media sono uno dei pilastri fondanti della nostra moderna società dello spettacolo e rappresentano essi stessi uno degli strumenti di sfruttamento del reale e della capitalizzazione totale dell'esistente a vantaggio del potere.
Per far questo sarebbe importante abbandonare ogni tipo di preoccupazione riguardo alla narrazione dei fatti da parte del potere e considerarla solo per quanto riguarda i nostri piani di sabotaggio e distruzione totale dei meccanismi di riproduzione di questo esistente. Inceppare il meccanismo narrativo del potere, questo si che sarebbe rivoluzionario!
Ma bisogna stare attenti a non cadere nell'errore di creder di poter intaccare la narrazione che il potere fornisce ai suoi sudditi (se non attaccando, sabotando e distruggendo i mezzi di cui esso si serve per questo) costruendo una contro-narrazione “alternativa” degli eventi che cerchi di contrastare quella dei media. La sproporzione di mezzi e forza in questo ambito è evidente. Al massimo essa può costituire una gratificante auto-narrazione all'interno della quale riconoscersi e identificarsi.
Oltretutto questa prospettiva apre la strada a pericolose considerazioni riguardo all'immagine che si dà all'esterno, su come si può essere percepiti dagli altri e al desiderio di dare una buona impressione sperando in qualche giudizio positivo. Ed è proprio quest'ansia dell'immagine, questa preoccupazione verso come ci vede “la gente” che conduce in molti casi alla dissociazione, o più banalmente all'assordante silenzio di gran parte del “movimento”, espressione del desiderio di non essere coinvolti nel vortice di indignazione generale, da ricordarsi, perfettamente artificiale, ovvero costruito a tavolino dai media e amplificato fino all'estenuazione dai social network. Chi può dirlo se “la gente” sia o non sia davvero indignata? Crediamo forse che ciò che ci mostrano alla tv sia effettivamente corrispondente alla realtà?
L'unica cosa che la narrazione del potere non può intaccare sono le conseguenze concrete delle nostre azioni e delle nostre pratiche, e come queste entrino a partecipare nell'immaginario sovversivo. Per questo è importante chiedersi quale fosse lo scopo pratico del black bloc di Milano in modo da sviluppare una prospettiva realmente conflittuale di intervento in situazioni come quella del mega-evento chiamato EXPO.
Sovviene quindi la domanda: qual'è stato l'obiettivo di quella parte agitata del corteo?
Qualcuno ha detto che il blocco nero voleva tentare di assaltare il centro blindato di Milano, sfondare i cordoni e i blocchi allestiti dalla polizia, attaccare quindi il Duomo, le strutture Expo poste nel centro città, etc. Questo è quello a cui che anni di contro-vertici ci hanno abituato: cori di minacce, le chiamate guerresche, le millantate promesse di “violare la zona rossa”, etc etc.
A costo di disturbare la lettura a qualcuno, quando qualche “compagno” ci illustra entusiasta piani del genere a noi ci vien da dubitare sulla sua buonafede, ci ritornano i mente gli assalti tanto spettacolari quanto innocui alle zone rosse organizzati e perpetrati da quel movimento che di sovversivo e rivoluzionario possiede al massimo gli slogan, disobbedienti prima (vedi Genova 2001, Vicenza 2009), autonomi vari dopo (Val di Susa, Roma 19 Ottobre 2013).
Vien da chiedersi: ma questi (o i loro leaders, perché è certo che molti militonti credono davvero nelle migliori intenzioni di chi li comanda) vogliono veramente fare quello che dichiarano, o sanno benissimo che è impossibile? E a seconda della risposta che ci diamo, vogliono creare una situazione potenzialmente esplosiva e sperare che questa si diffonda o dar spettacolo, ovvero fornire una certa immagine di se stessi? E se gli interessa l'immagine e non il risultato, sono questi “compagni”? Vogliono quello che vogliamo noi?
Queste domande non sono poste per infastidire qualcuno, non è certo intenzione ne interesse di chi scrive quello di alimentare le inimicizie; se si infiltrano dei dubbi è solo e unicamente perché è forte la volontà di comprendere la realtà delle manifestazioni di conflittualità del nostro presente al fine di indirizzare al meglio le energie sovversive.
Qualcun altro ha suggerito che l'obiettivo di situazioni del genere mirino alla la distruzione del processo di produzione. Ma davvero qualcuno ci crede ancora? Pensiamo che il blocco nero di Milano abbia in qualche modo intaccato il processo produttivo?
Le vetrine infrante, le auto in fiamme, sono ben poca cosa, un danno infinitesimale, un'inezia se comparato all'immensità del Capitale. Potremmo dire per assurdo, per provocazione, e forse così non andremmo lontano dalla triste verità, che la distruzione di certi beni non faccia altro che contribuire al processo produttivo facendo in modo che diverse banche acquistino nuove vetrine blindate, e che l'industria dell'automobile riceva richiesta di nuove auto di lusso. L'organizzazione attuale del capitalismo infatti fa in modo che il prodotto finito e venduto sia da considerarsi da ostacolo al consumo di nuova merce, poiché è la domanda costante che mantiene in vita il sistema produttivo. Per questo negli ultimi anni si è riscontrata nei prodotti industriali un'obsolescenza sempre più rapida: i prodotti che vengono acquistati devono essere subito sostituiti da altri, il consumo non deve mai arrestarsi, la domanda di prodotti deve essere sempre rinnovata altrimenti il sistema rischia di incepparsi.
Forse l'obiettivo non era chiaro. Solo la volontà di opporsi attivamente, fisicamente, radicalmente e senza compromessi possono essere riscontrati all'interno di quella componente che ha incendiato quel pomeriggio di Milano. Ma attenzione: di fronte a chi parla di pratiche includenti si voglia opporre una considerazione: le persone che hanno partecipato allo spezzone nero erano a Milano con le idee chiare rispetto a cosa volevano fare (non l'obiettivo, come abbiamo avuto modo di vedere, ma almeno l'intenzione). Magari qualcuno si sarà anche aggregato durante il percorso, eccitato come il ragazzo che si è fatto poi intervistare, ma di sicuro ben pochi individui, per lo più inesperti e facili prede per i cani della repressione (del resto chi sono gli arrestati e gli imputati per le due altre occasioni recenti in cui si è manifestato il blocco nero in Italia, ovvero il 14 dicembre e il 15 ottobre a Roma?). Fondamentalmente il blocco è rimasto lo stesso dall'inizio alla fine. Vien da dire che il black bloc è, al contrario di come vuole credere qualcuno, una pratica escludente. E a ben ragione! Un gruppo compatto di persone, abbigliate in maniera uguale e ben equipaggiato allo scontro non permette agilmente l'inserimento di persone esterne, per ovvi motivi pratici.
Gli entusiasti, i cantori di rivolte e gli amanti di insurrezioni lontane farebbero bene a tenerlo a mente. Se la prospettiva che si ha quando si partecipa a momenti come quello del primo maggio milanese è il deragliamento del movimento-baraccone e la creazione di una situazione di scontro diffuso con la polizia e i simboli del dominio, allora bisogna pensare altre modalità di intervento. Perché per quanto qualcuno se la voglia o la voglia raccontare, il Primo Maggio non è stato un giorno di rivolta, ma è stato solo l'occasione per una piccola parte di irriducibili di manifestare la propria esistenza e sfogare i propri aneliti di distruzione. Questo non per sminuire il senso di quella giornata, ma per chiamare le cose col proprio vero nome e contrastare l'intenzionale storpiatura degli eventi e quella deriva di significato che negli ultimi anni sta coinvolgendo anche gli ambienti più conflittuali.
Oltre all'immagine esaltante che rappresenta per molti giovani ribelli, il black bloc sarebbe bene ritornasse alle sue origini: esso non è altro che uno strumento, una pratica di strada che risponde a precise necessità pratiche, e che i guastatori dell'esistente dovrebbero decidere di utilizzare per uno scopo preciso. Questa pratica è stata utilizzata da sempre per precisi scopi pratici (creare un gruppo compatto e ben individuabile, evitare il riconoscimento, come fu per gli Schwarzer Block messi in atto dagli autonomi tedeschi a partire dagli anni '80), e come tecnica si è diffusa inizialmente e principalmente negli Stati Uniti dove fu utilizzata durante i grandi contro-summit al fine di portare una nuova modalità di stare in strada, una proposta per manifestare attivamente il proprio dissenso che superasse il pacifismo innocuo del resto del “movimento”. Voleva inoltre suggerire come fosse possibile colpire degli obiettivi, indicare in maniera chiara il nemico e con quanta facilità la vetrina tirata a lucido di questa società potesse essere infranta. Ma di certo non voleva indicare LA maniera di stare in strada, e nemmeno dare ad intendere che spaccare banche durante i cortei fosse l'aspirazione massima dei sovversivi. Si voleva puntare il dito, far saltare la solita processione, la solita litania di protesta a cui era inchiodato il “movimento” all'epoca, sabotare lo spettacolo (questa volta si) del contro-summit bello e colorato. Ma per inceppare il processo di produzione-accumulo del Capitale ci vuole ben altro impegno, una conflittualità quotidiana costante, che coinvolga tutti gli aspetti della riproduzione di quest'esistente, tanto quelli esterni all'individuo quanto quelli interni ad esso.
Spaccare vetrine è un gesto primariamente simbolico, e come tale va considerato.
Qualcuno ha già fornito la sua contro-narrazione, in molti hanno già fornito la loro versione dei fatti perfettamente in linea con le proprie categorie di interpretazione del reale, rispondendo al proprio bisogno di significato. Questo non è interessante.
Qualcuno ci ha visto l'espressione della rabbia dei giovani, altri ci hanno voluto vedere la conflittualità del “sottoproletariato”, altri la volontà di rivolta dei “compagni”, tutte categorie che non soddisfano la necessità di sovvertire quest'esistente.
NOI (un noi ipotetico quanto irreale) non siamo una categoria, non siamo sempre gli stessi, non siamo un soggetto rivoluzionario immobile nel tempo pronto al recupero politico di qualcuno. NOI siamo l'insieme sempre mutabile delle nostre intenzionalità sovversive, la somma dei gesti di rivolta individuali. E questo sfugge a qualsiasi recupero politico, che provenga dagli ambienti di potere come da qualche altro politicante.
È probabile che un giorno o l'altro qualcuno busserà alla porta, sarà il potere venuto a presentare il conto di quella giornata. E mentre speriamo che non sia troppo salato, pensiamo anche ad essere pronti ad accoglierlo, una volta tanto, per ribaltare il tavolo e non seguire il suo copione.
Questa si che sarebbe una prospettiva interessante per il dopo-evento.
Per non ripetere l'errore di Genova 2001, del 14 dicembre e del 15 ottobre.
Fonte
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