Tratto da Machete, n. 6, settembre 2010
«Ricordati che tutti gli istanti che ci hanno incoronato tutte le
strade radiose che abbiamo aperto andranno incontro senza fine al loro
luogo ansioso al loro boccio in fiore all’orizzonte e che di questa
ricerca estenuante e precisa non avremo nessun segno se non sapere che
andrà verso dove l’uno per l’altro avremo vissuto»
Mário Cesariny
Il conto alla rovescia è partito così tante volte, che ormai tutti
diamo i numeri alla rinfusa. Il botto non ha ancora squarciato le
orecchie, ma la tensione sale, sale, sale… fino ad assumere i tratti del
regolamento di conti. Dentro e fuori il Palazzo, tutti hanno iniziato a
protestare. Protesta Re Ubu contro chi ha l’ardire di criticarlo,
protestano i suoi ratti che lo vedono affondare, protestano i suoi
rivali che non sanno più a che candidato votarsi, protestano i suoi
dipendenti (dai magistrati ai diplomatici, fino ai poliziotti) che non
hanno i mezzi per lavorare, protestano i suoi sudditi che non hanno un
lavoro per farsi sfruttare, protestano i suoi nemici che non sanno più
che cosa fare. E i pochi che rimangono zitti già sanno che presto
arriverà il loro turno di protestare.
Grande è la confusione sotto i cieli, ma non si può dire che la
situazione sia promettente. Il fuoco greco resta un arcano, mentre alla
bottega sotto casa restano disponibili solo i tarallucci italiani. Più
che criticare, si deplora. Più che pretendere, si chiede. Più che
bestemmiare, si prega. E se le “sacrosante” rivendicazioni rimangono
inascoltate, pazienza; vorrà dire che si tirerà la cinghia. E quando
finiranno i buchi, cosa accadrà?
Per adesso, la rabbia che sbotta il più delle volte divora se
stessa. Il numero dei malati e dei suicidi cresce inesorabilmente,
mentre le belle mani degli assassini (e belle sono solo quelle che non
allacciano uniformi) escono raramente dalle tasche. Come se la vita,
delusa nelle sue aspettative di sopravvivenza e senza nessun’altra
prospettiva, avesse fretta di concludersi. Ma il suicidio è una
vocazione e le patologie hanno tempi troppo lunghi. Bisogna trovare un
bersaglio, un obiettivo comune su cui scaricare tutta questa rabbia che
va accumulandosi. A indicarlo, purtroppo, non siamo noi. La voce
interiore che ci sussurra alla testa e al cuore tace, sembra essersi
esaurita, al suo posto si alza distorto il frastuono ambientale esterno.
Non è una voce umana che si interroga quella che udiamo, è un gracidio
che si limita a riportare le parole dei media. Quei media che ci
“informano” a domicilio, 24 ore su 24, quale sia il politico da votare,
il fatto di cui chiacchierare, l’opinione da esprimere, lo slogan da
ripetere, il desiderio da realizzare, la canzone da canticchiare, la
merce da acquistare, il programma da guardare, il problema da risolvere,
il libro da leggere, la tragedia da compiangere, l’abito da indossare,
il successo da festeggiare, il personaggio da ammirare… Ebbene, possiamo
star certi che ci indicheranno anche il nemico da odiare e da
ammazzare. Lo stanno già facendo. Quando gli schermi televisivi si
spegneranno, in fiamme andranno più le baracche dei poveri che le ville e
i palazzi dei ricchi.
Nel frattempo, dentro il nostro piccolo angolo di movimento, tutto
procede come sempre. Noi, “chiusi nella nostra torre d’avorio”, perdiamo
il nostro tempo correndo dietro a sogni sempre più irrealizzabili
(«Consiglio alle idee elevate di munirsi di paracadute», diceva un
brillante quanto putrido burlone). Altri, immersi nella loro pozzanghera
di merda, spendono il loro rincorrendo una realtà sempre più
miserabile (forse bisognerebbe anche avvisare le idee basse che
l’ascensore è fuori servizio). Questione di priorità, insomma.
Può darsi che finiremo tutti inghiottiti dall’abisso che incombe,
sotto forma di implacabile dittatura a base di psicofarmaci e sbarre
oppure di spietata guerra civile con corollario di linciaggi e stupri.
Annaspando nel vuoto, riusciremo ad imparare a volare? Impossibile
prevederlo. Di certo sarà una occasione, una terribile occasione che ci
riporta alla mente quanto scriveva un anarchico pochi giorni dopo la
fine della “settimana rossa”, quasi un secolo fa: «Abbiamo visto che gli
avvenimenti impreveduti danno quel che possono dare, ma che per
riuscire bisogna prepararsi metodicamente secondo piani preordinati. Ed
abbiamo visto ancora che le occasioni possono capitare quando uno meno
se lo aspetta, e che perciò bisogna star sempre pronti».
Al di là del fatto che l’irruzione dell’imprevisto manda sempre a
monte tutti i «piani preordinati», la cui elaborazione assomiglia più ad
un esorcismo che ad un progetto, e che la consapevolezza di quanto è
accaduto nel passato non ha mai impedito il ripetersi degli stessi
errori nel presente (come dimostra la fine delle occupazioni delle
fabbriche nel 1920, decretata dagli stessi burocrati sindacali che
dichiararono terminati gli scioperi dell’estate del 1914; burocrati in
cui troppi anarchici avevano riposto per l’ennesima volta la loro
fiducia), resta immutato il senso generale di questa antica riflessione.
Qualsiasi sconvolgimento, spezzando il flusso della normalità, apre
mille occasioni. Sta a noi saperle cogliere, riuscendo a beffare,
anche, il tempo.
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