1 marzo 2016

INCIVILI!

tratto da Finimondo
Ancora uno sforzo, è quasi finita. Meno male, perché non se ne poteva più. Erano settimane che ci scassavano i neuroni con la legge sulle unioni civili (con o senza "stepchild adoption"). E le associazioni LGBT che la volevano (ma non così, di più), e la Chiesa che non la voleva (ma non così, per niente), e certi partiti che-non-ci-sono-cittadini-di-serie-B, e certi altri partiti che-bisogna-impedire-una-rivoluzione-contronatura...
Alla fine, già passata alla Camera, anche il Parlamento italiano sta per votare una legge che regolamenterà la situazione di chi non ha voluto (o non può) saperne di matrimoni, né religiosi né civili. Fra poco, le coppie di fatto avranno i loro bei diritti da rivendicare davanti allo Stato. Basterà sbrigare qualche piccola formalità (registrare un accordo in Comune, o sottoscrivere un patto dal notaio), e la legittimità è assicurata. L'amore riconosciuto dalla legge, garanzia di pensione reversibile o di un'eredità incassata allo sportello.
Contenti?
Noi no. Indifferenti, semmai, dato che al diritto crediamo quanto al figlio di una Vergine. Non esiste e, se esistesse, bisognerebbe eliminarlo come tutto ciò che ha la malsana pretesa di stabilire cosa (e come e con chi) dire, fare, baciare... vivere e morire. Anzi, detto tra noi, siamo un tantino disgustati di fronte a questa ennesima prostrazione di massa al cospetto del Grande Dispensatore di Briciole, lo Stato, davanti a questo umano affannarsi a rispettare le sue regole del suo gioco. Certo, non vivendo sulla Luna sappiamo che in questo mondo chi è senza diritti non se la passa molto bene, preda di continui soprusi (per quanto, anche quando si hanno, per essere rispettati devono essere accompagnati da un portafoglio bello gonfio).
Ma il problema, qual è? Distribuirli a tutti in maniera più o meno equa affinché possano essere pretesi dopo essersi messi in fila, oppure rompere queste fila, porre fine alla dipendenza da un Ente Superiore ed iniziare a vivere in autonomia? Chiedere allo Stato di tutelare il proprio amore, oppure difenderlo da sé contro tutto ciò che lo minaccia (in primo luogo, lo Stato stesso)?
Non è la stessa cosa. Non è mica un caso se sono sempre esistite coppie di fatto, omo o eterosessuali, che non hanno mai avuto alcuna intenzione di regolarizzarsi (nemmeno quando ciò avrebbe fatto il loro interesse in senso "tecnico" o patrimoniale). Nelle loro teste come nei loro cuori non c'è mai stato spazio per reclami redatti in carta bollata.
Ciò che oggi molti salutano come una grande vittoria civile, ai nostri occhi ha tutte le caratteristiche di un'altra forma di normalizzazione, di istituzionalizzazione. Per misurare certe abissali differenze, ci viene in mente uno dei più provocatori fotografi del XX secolo, travestito con la passione per l'eccesso, il quale prima di morire lasciò scritto il proprio epitaffio:
«Qui giace Pierre Molinier
Fu un uomo senza moralità
Se ne fece gloria e onore
Inutile pregare per lui».
Oppure, per restare dalle nostre parti, si potrebbe pensare a quel grande attore di teatro — giovane e plateale omosessuale sotto il fascismo — secondo cui le rivendicazioni di diritti, come ad esempio le nozze gay, sono solo «rotture di coglioni». Che senso ha agitare bandierine? «Avere gli ormoni scombinati» è una «gioia» da assaporare «in una sorta di condizione aristocratica. Cioè, di totale solitudine», giacché «chi possiede un po' di cervello sta benissimo anche da solo».
Che parole arroganti, nevvero? Che però spiegherebbero bene il motivo per cui in quest'epoca che ha messo al bando ogni idea, riducendo il pensiero alle dimensioni di un cinguettio o di uno slogan, tutti si buttino sulla condivisione dell'idiozia.

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