6 febbraio 2014

CRITICA AL SINDACALISMO


Il sindacalismo, sia esso borghese, di base, rivoluzionario o anarcosindacalista, è da me visto come un ammortizzatore sociale, un deterrente per la guerra sociale, e dunque direttamente o indirettamente uno strumento utile al dominio.
Il sindacalismo nella migliore delle ipotesi si basa sull’operaismo, nella peggiore è una farsa borghese pro-Tav come CGIL e simili e complici (e in questo secondo caso è uno strumento esplicito nelle mani dei padroni). L’operaismo a sua volta si basa sul concetto di classe, concetto quanto mai inattuale considerato che da un lato si ha una proletarizzazione economica della borghesia e dall’altro una borghesizzazione ideologica del proletariato, fino al punto da poter ancora identificare nella borghesia un nemico sociale, ma non più nel proletariato una classe rivoluzionaria.
Sebbene l’espressione di guerra di classe (poi lotta di classe) sia proudhoniana, poi rubata dai marxisti, va considerato che persino un moderato come Malatesta metteva in guardia dal farsi un’immagine idealizzata del popolo lavoratore1, arrivando addirittura ad una critica verso l’anarcosindacalismo, che sosteneva che le/gli anarchiche/anarchici dovessero stare soltanto all’interno del movimento operaio2. E Malatesta giunge anche, nella sua opera di attualizzazione delle idee e delle teorie, a palesare dubbi circa le comode soluzioni kropotkiniane della fiducia straordinaria nelle capacità di ricostruzione (dopo la rivoluzione) delle masse sfruttate3, fiducia nel proletariato, a cui si attribuisce pertanto funzione rivoluzionaria. Se accettiamo che la Storia sia tribunale del pensiero, la concezione, prettamente marxista, secondo cui dalla rivendicazione di diritti sindacali e dalle conseguenti lotte per il proprio interesse di operaie/operai si dovrebbe giungere alla solidarietà e all’acquisizione del senso di classe, è invece miseramente fallita, non tanto, purtroppo, nel dogmatismo operaista e marxista, quanto piuttosto nella realtà storica dei fatti.
Sorvolando anche in questa sede sull’accusa di praticismo che si potrebbe muovere agli operaisti e sul problema della produzione – non cesserebbe infatti la schiavitù con l’abolizione del capitalismo, laddove la mentalità ed i processi produttivi restassero invariati se non per la semplice sostituzione del padrone con lo stato o pur anche con la collettivizzazione del mezzi di produzione4 –, una questione importante è infatti quella dell’idea di diritto, cui accennavo poco sopra. Finché si rivendicheranno diritti, si legittimerà inevitabilmente un’autorità preposta a concederli. Finché si rivendicheranno diritti si accetterà un’autorità e di conseguenza anche i doveri da questa imposti. Di fatto si sostituisce la giustezza stessa di quanto si vuole con l’autorità. Perché uno sciopero si conclude quando di ottiene un diritto? Perché evidentemente il fine della protesta sindacale, sia anche rivoluzionaria o anarcosindacalista, non è l’abolizione del dominio dell’uomo sull’uomo, bensì alleggerire la violenza dell’oppressione. Ogni diritto nasconde un dovere. Ecco perché io non rivendico diritti, non elemosino diritti dallo stato o dai padroni, ma cerco di prendermi libertà. Il diritto alla libertà d’espressione per esempio è un abominio concettuale: io mi prendo la libertà di esprimermi, non chiedo a qualcun* di poter avere il diritto alla libertà (che dunque libertà non è) ossimorica di parola, o dovrei considerare anche la possibilità che l’autorità, che io in questo modo legittimo, non mi conceda quel dato diritto. La richiesta di ogni diritto nasconde le catene dell’autorità.
Quindi, dopo aver osservato che il proletariato non è più classe rivoluzionaria (e che quindi più che di lotta di classe bisognerebbe parlare di guerra sociale) e che le rivendicazioni dei diritti legittimano l’autorità, va aggiunto che i sindacati, per quanto di base, rivoluzionari e anarchici possano essere, sono organizzazioni formali, scadono nel meccanismo della delega e, in conseguenza a ciò, possono riprodurre dinamiche di potere.
Infine il sindacalismo per me è riformismo economico-produttivo, così il gradualismo socialdemocratico è riformismo politico: esso non contesta affatto la schiavitù del lavoro (né la correlata mentalità: ecco perché molt* lavoratrici/lavoratori provavano e provano orrore per i sabotaggi, anche se l’oggetto della distruzione è la proprietà del capitale5), ma la rende più accettabile, nello stesso identico modo per cui un “buon” governo o un governo democratico, secondo il mio parere, è più difficile da identificare come il nemico, come l’oppressione. Tutto questo è funzionale al dominio. Come scriveva Bakunin, sotto la «dittatura repubblicana-democratica»6, «lo Stato [...] sarà oppressivo e rovinoso per il popolo quanto i suoi predecessori più sinceri ma non più coercitivi; e proprio perché sarà investito di ampi poteri democratici potrà garantire con maggior forza e sicurezza lo sfruttamento tranquillo e generalizzato del lavoro popolare da parte della ricca e rapace minoranza»7. Lo stato «non ha paura delle forme democratiche più spinte né del suffragio universale. Conosce meglio di chiunque altro l’irrilevanza delle garanzie che queste danno al popolo e, al contrario, il valore che hanno per gli individui e le classi che lo sfruttano; sa che il despotismo governativo non è mai così terribile e così forte come quando si sostiene sulla cosiddetta rappresentanza della cosiddetta volontà del popolo»8. Lo stesso vale per il capitale. Il capitale e lo stato non sono riformabili, non sono migliorabili, non sono sanabili. Sono intrinsecamente oppressivi e come tali vanno distrutti. Voglio tutto, voglio la libertà, voglio la distruzione del dominio e anche senza determinismo, senza messianica e religiosa fede nella rivoluzione, il compito è il tentativo di distruzione di un esistente fatto di potere. Farci sfruttare di meno, farci opprimere di meno, avere due pezzi di pane a fine mese anziché uno, farà soltanto in modo di rendere l’impresa dell’emancipazione da stato, padroni, chiesa e apparato tecno-scientifico ancora più ardua. Perché quando non sono obbligato a portare una camicia nera, quando ho le ferie pagate, quando riesco a regalare al capitale i soldi per comprarmi un vestito o un film, è molto più difficile che io rischi la vita e quel poco di libertà che abbiamo per tentare di distruggere questo sistema. Ecco perché le rivendicazioni di diritti, ecco perché il sindacalismo, sono un ammortizzatore sociale, ecco perché sono un arma nelle mani del dominio.
1 Gruppo anarchico Rivoluzio Gilioli, dibattito con Turcato D., L’importanza delle opere di Errico Malatesta, Edizioni Rivoluzio, Modena 2006, p. 18.
2 Gruppo anarchico Rivoluzio Gilioli, dibattito con Turcato D., L’importanza delle opere di Errico Malatesta, Edizioni Rivoluzio, Modena 2006, p. 19.
3E. Malatesta, Rivoluzione e lotta quotidiana, Edizioni Antistato, Vicenza 1982, p. 17.
4A.M. Bonanno, La gioia armata, Edizioni Anarchismo, Trieste.
5A.M. Bonanno, Distruggiamo il lavoro, Edizioni Anarchismo, Trieste 2007, p. 30.
6M.A. Bakunin, Stato e anarchia, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2011, p. 36.
7M.A. Bakunin, Stato e anarchia, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2011, p. 36.
8M.A. Bakunin, Stato e anarchia, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2011, p. 37.

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