Lettera di Mattia
[…] Per quanto lo aspettassimo il trasferimento è arrivato come un ladro di notte (solo meno gradito). Erano le 5.30 circa, io dormivo di un sonno molto leggero, perché sapevo che quel giorno avevo un’udienza a Milano, ma ancora non sapevo se mi ci avrebbero portato o meno, così quando ho sentito lo spioncino del blindo aprirsi, mi sono svegliato subito. Una guardia si affaccia e mi dice:
“Zanotti, preparati che tra mezz’ora devi partire.”
Convinto che si trattasse dell’attesa traduzione in tribunale sono saltato giù dal letto contento. Avrei visto tanti amici che non vedevo da un pezzo e mi sarei fatto un giro fuori dal carcere. Attento a non svegliare il mio concellino (il quale comunque non lo svegliavi neanche a cannonate) mi sono lavato, vestito e poi mi sono seduto per sgranocchiare un minimo di colazione. Ero quasi emozionato, pronto per il mio primo viaggio sul blindato che non fosse il breve tragitto Vallette-Tribunale di Torino. Poi si riabbassa lo spioncino e si affaccia un seconda guardia che mi chiede se sono pronto. Rispondo di sì e chiedo se posso portare con me dei biscotti per la trasferta.
La guardia mi osserva stranita e mi risponde:
“Forse non hai capito. Devi portare t-u-t-t-o, sei partente.”
“Partente”, al suono di questa parola mi si spalanca un mondo. Ricordi di letture e racconti, parola sentita di sfuggita e forse mai interiorizzata, eppure in quel momento così chiara, limpida, inequivocabile. “Partente”: colui che sta partendo (e non sa dove sta andando, aggiungo io). In un frammento di secondo penso a mille cose. Primo pensiero tra tutti: hanno svegliato me e non i miei compagni alla cella di fianco, quindi ci separano. Ciò che temevamo si sta verificando.
Dico alla guardia che non ho preparato le borse perché pensavo di dover andare in tribunale, non di essere trasferito. Mi risponde che chiede meglio al suo collega. La prima cosa che faccio appena rimango solo è bussare sul muro per svegliare i vicini.
Dalla finestra mi risponde la voce di Claudio.
“Mi trasferiscono”. Silenzio, poi Claudio mi risponde qualcosa ma non capisco, gli chiedo di ripetere e ancora una volta non capisco, e così un terza volta. Un po’ la sua voce flebile, impastata, strappata al sonno, un po’ la mia agitazione, chiudo la finestra.
Devo preparare tutto in pochi minuti. Riempio le borse. I vestiti sono già pronti nei sacchi. Ne preparo uno nuovo con i libri e la corrispondenza, poi arraffo alla rinfusa del cibo, fornello, spazzolino, dentifricio…
Torna la guardia:
“Zanotti, vai prima in tribunale poi ti trasferiscono”.
Bussano sul muro, sono i vicini. Vado alla finestra e i vicini mi dicono che trasferiscono anche loro. Li informo delle mie novità:
“Prima mi portano in tribunale, poi mi trasferiscono.”
“Allora non è escluso che poi ci rimettano assieme.”
Richiudo la finestra con qualche speranza in più. Sveglio il mio concellino scrollandolo con forza nel letto. Mugugno, si gira, lo riscuoto, si rigira.
“Alessio! Alessio!! Alessio!!!”
Apre gli occhi spaventato.
“Alessio. Mi trasferiscono!”
“Allora non era un sogno!”
“No Alessio, non è un sogno.”
Continuo a riempire le buste mentre Alessio si alza. Mi guarda riempire le buste, prende il suo fedele tabacco, gira due sigarette.
“Fumiamoci l’ultima sigaretta insieme” mi dice.
Non faremo in tempo. Le guardie arrivano a prendermi. Ci abbracciamo. Prende un paio di pantaloni dal suo armadio e me li offre. “Prendili tu” mi dice “ci tengo”. “Ma no, Alessio. Tienili, hai pochi vestiti”. “Insisto” mi risponde. Li prendo e non ho la prontezza di scavare tra i miei vestiti e ricambiare. Le guardie aprono il blindo, poi la cella. Ci abbracciamo ancora, ci salutiamo un’ultima volta.
Se ci ripenso una delle cose che mi fa più rabbia è non aver ricambiato a quel suo gesto. Mi sento un stupido. Certo ero sballottato, incalzato, tutto quello che vuoi, ma per due mesi abbiamo condiviso gli stessi 10mq ridendo, litigando, talvolta piangendo. E poi ti portano via così, giusto il tempo di un abbraccio con gli occhi ancora appannati dal sonno e con una guardia che ti mette fretta.
Una volta fuori dalla cella chiedo di poter abbracciare i miei compagni prima di partire. La guardia acconsente e apre la loro cella, Claudio esce e di getto mi si aggrappa al collo. Mi abbraccia come arrampica le montagne, con uno slancio scoordinato, di cuore. Poi abbraccio Nico. Trattengo la commozione, penso che potremmo anche non vederci più per un sacco di tempo. Gli dico “Forti. Mi raccomando. Qualsiasi cosa succeda, forti”. È ora di andare. Mi carico di borse come un mulo, faccio una fatica boia. Un assistente mi offre una mano ma la rifiuto. Stringo i denti, raddrizzo la schiena e vado. Mi fermo solo per stringere le mani di due detenuti della sezione che, svegliati dai movimenti in corridoio, si svegliano e mi tendono le mani dallo spioncino per salutare. Poi le trafile burocratiche al casellario e via sul blindato. Sono sveglio da poco più di mezz’ora, parto alla volta di Milano e poi chi lo sa.
I “partenti” sanno quello che lasciano ma non quello che trovano.
Questi i ricordi più vividi della partenza.
Sul viaggio nulla da registrare. Su consiglio di un amico (amante dei pudding) porto con me un rotolo di carta igienica per rendere più comodo il poggia testa.
In testa tanti pensieri, dormo un po’ per allontanarmi e ritrovare un equilibrio.
Quando mi sveglio siamo nei pressi di Milano, entriamo da Sud. Riconosco le vie, i luoghi, l’ambiente. Per una volta dopo tanto tempo Milano mi piace, mi sento a casa.
Dell’udienza cosa dire… c’eri anche tu. Per me rivedervi è stato bellissimo. Già del cortile, appena sceso dal blindato un stormo di compagni appollaiato sul davanzale di una finestra ha iniziato ad urlare e a salutare. Ho capito subito dalla valida accoglienza che sarebbe stata un bella giornata. Ho gridato “Piglio un caffè e arrivo!”. Il capo scorta (un tipo tranquillo prossimo alla pensione) mi ha detto: “Ecco, siamo appena arrivati e già piovono gli insulti”. “La prossima volta si porti l’ombrello” ho risposto. Non se l’è presa e ne ho approfittato per chiedere qual era la mia destinazione finale. “Alessandria” ha risposto, ma poi, pentito, ha detto che non era sicuro, che aspettava conferma e che poteva essere un altro carcere “magari Ferrara”, ma si capiva benissimo che non era così. Poi l’attesa nelle celle di sicurezza al piano terra, un luogo squallido, uno stanzone gigante pieno di guardie penitenziarie con, sui due lati, due file di celle minimali (panca di cemento e pareti lisce). Poi da lì mi hanno portato direttamente in aula, passando per gli scantinati del tribunale per evitare “brutti incontri”. È stato spassosissimo, sembrava un labirinto e la scorta delle Vallette era smarrita, volevano addirittura farsi dei segni sul muro per ritrovare la strada del ritorno! Mi sono scordato (non che l’avessi dimenticato!) quanto siete belle e belli e quanto vi voglio bene. L’unica paura era solo quella di trascurare qualcuno. Vorrei avere più processi in modo da vedervi più spesso!!!
Per quanto riguarda lo sgombero dell’aula e gli effetti sul processo, per stavolta chissenefrega è andata benissimo così, ma sulle prossime udienze dovremo andarci più leggeri, come saprai il giudice voleva già spostare il processo in aula bunker e io lo eviterei, primo perché voglio starvi vicino il più possibile, almeno in queste poche udienze e secondo perché non mi va di accentrare troppo l’attenzione e fare la star, alla fine non c’è solo il mio processo. Certo, ci vorrà molta pazienza da parte vostra, l’aula è piccola e il giudice alquanto permaloso. Staremo a vedere…
Eccoci arrivati all’ultima parte di questa lunga giornata, quella più dolorosa, anche per la stanchezza accumulata per le troppe emozioni. Sul blindato ho sonnecchiato (il sonno in carcere e in questi momenti è un buon alleato ma non bisogna abusarne che altrimenti ci si lascia andare troppo) e quando mi sono svegliato ero nel bel mezzo di una bufera di neve. Non fosse stato per i cartelli autostradali che confermavano l’avvicinamento ad Alessandria avrei pensato che mi stessero portando in un gulag in Siberia! Sono arrivato ad Alessandria verso le 17. Il carcere da fuori lo conoscevo bene per i diversi presidi organizzati là sotto negli anni passati, ma non avevo alcun desiderio di conoscerlo da dentro, l’ho sempre trovato molto triste anche da fuori.
Una volta dentro mi hanno tolto le manette (sul blindato si viaggia ammanettati) poi ho scaricato le borse e senza neanche passare per la matricola una guardia mi ha accompagnato in sezione.
Attraverso dunque un carcere deserto, sembra un ospedale abbandonato ma pulito. Cammino, sempre carico di borse, attraverso corridoi vuoti. Non incontro anima viva (scoprirò poi che al passaggio dei reclusi della sezione speciale tutti gli altri detenuti vengono chiuse nelle celle per evitare contatti).
Arrivo in sezione e vedo Nico affacciarsi da un blindo. Mi informa del fatto che ci è negato incontrarci e che Claudio non è lì (ma di Claudio purtroppo avevo già saputo in tribunale). Quella sarà l’ultima volta da quando sono qui che Nico mi potrà rivolgere la parola direttamente. Poi mi portano in una stanza con la funzione di magazzino di sezione. Qui mi fanno spogliare nudo con flessione finale, mi perquisiscono i vestiti e passano al setaccio tutta la roba che ho nei sacchi. Mi dicono di selezionare le cose che voglio portare in cella e di lasciare lì il resto. Preparo un sacco con le cose da lasciare lì e lo metto su uno scaffale che porta un’etichetta con il mio nome. Riconosco alcuni cognomi su altre etichette, sono i cognomi di compagni che non conosco di persona, ma che so essere qui rinchiusi. Poi esco dalla stanza e finalmente li incontro. Sono solo in due: Gianluca e Ivano (gli altri due sono in cella perché non fanno socialità). Mi aspettano dietro un cancello, alle loro spalle un corridoi asettico. L’ambiente ricorda quello di un’infermeria. Ci salutiamo, porto le mie cose in cella, poi mi chiudono lì ma con il blindo aperto. I compagni mi portano un piatto di pasta caldo, chiacchieriamo un po’. Stasera non posso fare socialità, ma va bene così, la giornata è stata molto lunga e ricca di emozioni, sono molto stanco. Mi preparo il letto e inizio ad ambientarmi in cella. L’impatto con questa nuova sezione è piuttosto duro, ma so che tra qualche giorno andrà meglio. La capacità di adattamento dell’uomo agli spazi è incredibile. D’altra parte più della metà della popolazione mondiale vive nelle metropoli, e questo la dice lunga.
Ecco, ho cercato di restituirti quella giornata con una carrellato in soggettiva veloce ma fedele nei vari passaggi. Le cose da dire sarebbero molte di più […]
Sulla questione di merito (meglio o peggio, contenti o scontenti…) cosa dire? È molto soggettivo. Qui siamo tutti in cella da soli, la cella è più spaziosa e meglio organizzata, la sezione è molto tranquilla e silenziosa, ci sono solo compagni e non ci sono ruffiani…
Ma l’ambiente è estremamente asettico e triste, il tramonto è un pallido bagliore dietro un plexiglass bianco. Tutto contribuisce alla privazione affettiva e sensoriale e spinge all’introversione (e te lo dico io che sono un amante della solitudine).
Io, Claudio, Nicco e il mio concellino Alessio passavamo la socialità a cucinare e a mangiare insieme, talvolta a cantare. Durante le ore d’aria si correva, si scherzava, ho ancora i lividi sui piedi per le volte in cui abbiamo giocato a pallone con una bomboletta del gas imbottita! Qui la socialità la si passa in corridoio a camminare avanti e indietro e si mangia da soli perché non è consentito entrare nelle celle degli altri. Così passa l’appetito e la voglia di cucinare. Certo alle Vallette eravamo in una zona di limbo, tutto era sospeso, ci tenevano il blindo chiuso… ma attorno a noi girava un piccolo mondo di storie diverse, belle, brutte, contraddittorie, compromesse, eticamente lontane da noi, ma pur sempre storie, pezzi di vita. Qui invece è tutto certo, tutto dato, il nostro “status” è riconosciuto e trattato di conseguenza, ma non saprei cosa raccontare delle mie giornate tutte uguali. Ho il doppio delle ore d’aria (sulla carta, le devo dividere a metà con Nico per il divieto d’incontro) ma me ne faccio poco. Ho il blindo aperto, ma su un corridoio vuoto e silenzioso. Sono circondato da bravi compagni ma ermeticamente isolato da tutto il resto del carcere. Rispetto a questo luogo la sezione “D” delle Vallette era un mercato rionale…
Comunque se c’è una cosa che ho capito in questa mia breve permanenza nelle patrie galere è che il discorso “meglio o peggio” sul carcere vale fino a un certo punto. Non voglio dire che un carcere vale l’altro ma che ci sarà sempre un luogo peggiore di quello in cui si è, che sia all’interno dello stesso carcere in cui ci si trova o che sia altrove, su questo si basa la premialità e la differenziazione.
L’esempio che facevo prima sul blindo rende l’idea. Noi ci lamentavamo del blindo chiuso alle Vallette, ora ce l’abbiamo aperto ma questo non ha comportato nessun miglioramento, perché fuori dal quel blindo non c’è più niente da vedere.
Oppure io l’altro giorno mi lamentavo del fatto che alle finestre delle celle sono montati dei pannelli di plexiglass che impediscono di vedere fuori e mi è stato fatto notare che a Ferrara questi pannelli non ci sono ma da vedere fuori c’è solo un muro perché le sezione di A.S. è al piano terra. Capisci cosa intendo?
Guarda la corrispondenza, qui sembra funzionare meglio in quanto a rapidità di consegna ma la censura sembra essere ancora più stretta. Guadagni da una parte, perdi dall’altra. Dare un giudizio di valore categorico “meglio” o “peggio” è ipotizzabile solo attraverso un esercizio di contabilità molto soggettivo e relativo. La realtà è che il carcere è una merda, punto e basta. Poi ci sono tante sfumature.
Comunque se vuoi un giudizio personale, queste sezioni sono un vero e proprio concentrato punitivo che ha un impatto sugli individui moltiplicato rispetto alle sezioni comuni e non è solo una questione di separazione dal resto dei detenuti ma anche una ricaduta sulla capacità stessa di relazionarsi dei singoli compagni qui reclusi.
Poi a fare la vivibilità di un luogo non è solo l’architettura e il codice di comportamento che lo disciplinano, ma anche la vitalità dei singoli che lo “abitano”, quindi sta a noi cercare di viverlo al meglio non adattandoci al corso delle cose.
Ma questa è un’altra storia.
Un abbraccio, Mattia
Lettera di Niccolò
7 febbraio 2014 Casa di Ritenzione (idrica) SAN MICHELE (cazzo! Non smette mai di piovere!!!)
[…] il giorno del trasferimento ci siamo svegliati con Mattia che bussava dalla cella affianco, così abbiamo aperto la finestra e la sua voce candida ha proferito le paroline magiche del buon giorno: “Ragazzi, sono partente”. All’inizio pensavamo fosse solo lui, ma poi sono venuti a comunicarlo anche a noi. Mattia doveva andare anche al processo ed è partito subito, ci siamo abbracciati forte, con emigranti-400x215rev.jpgla speranza che fosse inutile, come una scaramanzia, e di rivederci la sera stessa. Solo per me è stato così, ma la parola “rivedere” va intesa in senso letterale, perché si è trattato giusto di una sbirciatina di sbieco oltre le sbarre, giusto il tempo di dirgli che il Pm aveva imposto il divieto di incontro. Ha ragione Mattia quando dice che il carcere è proprio stupido: stare a 10 metri di distanza l’uno dall’altro, senza nemmeno potersi dire “ciao”, elemosinando un sorriso tra un passaggio e l’altro per andare all’aria. Dopo la partenza di Mattia dalle Vallette, nella cella 109 si iniziano i preparativi. In soli due, tre mesi abbiamo accumulato tante cose e non è facile dividerle perché quasi tutto era in comune (tranne ovviamente spazzolino, mutande ecc. …)
[…] Avevamo anche deciso di dormire alternati un po’ sopra e un po’ sotto, per non subire i difetti del letto a castello, così c’erano dei dubbi anche sul possesso delle coperte. Un modo per dividerci le cose, anche se implicito, e puramente affettivo: ogni cosa ricorda un particolare momento un’emozione o una persona cara mentre altre ci faranno ricordare l’uno dell’altro. Infine tutte quelle cose neutre le accatastiamo nelle borse, sapendo che la metà delle cose dovremo ricomprarcele. Infatti, i trasferimenti, e qui apro una parentesi, sono anche un ulteriore onere economico, soprattutto per quelle persone che hanno sempre messo in comune tutto e che, come vuole il codice etico dei detenuti, regalano molto a chi rimane nel carcere o nella sezione dalla quale sta partendo. Inoltre, ogni carcere ha le sue regole, per cui può capitare che arrivi in un posto, dove alcune cose non le accettano e allora devi recuperartele, oltre la fatica e la spesa di riaddobbare la nuova cella di tutti quegli accrocchi utili alla quotidianità.
Ritornando al trasferimento e alla suddivisione dei beni, i libri fanno capitolo a sé, grande battaglia sui testi sacri (Balestrini, Benjamin, Ricciardi, ecc…) mentre nessuno vuole accollarsi i mattonazzi. […] Pietro, il dirimpettaio di cella, dice che c’è una camionetta sola e questo ci fa sperare ma appena saliti e infilati in due cellette separate le guardie si dicono che una guiderà fino ad Alessandria e l’altra fino a Ferrara. Bisogna usare gli ultimi momenti assieme per dirsi delle cose belle e intelligenti ma non è facile e il silenzio prevale. Non credo negli addii e nemmeno nelle frasi epiche da ultimo minuto, quello che dovevamo dirci, ce l’eravamo già detto e il peso della separazione mi stranisce e disorienta.
Ad Alessandria non ci lasciano nemmeno abbracciare, così attraverso le fessure della celletta stringo le sue dita possenti e bitorzolute da arrampicatore folle e in quel gesto c’è tutto il nostro affetto.
Prima tappa, il casellario: controllo di tutta la roba, ciò che è permesso e ciò che non lo è. Alcune cose come scarpe, ciabatte e posta vengono passate ai raggi x, mentre altre cose vengono segnate per non superare il numero consentito (2 tute, 2 lenzuola, 2 coperte, 1 fornelletto, 3 paia di scarpe ecc…). Scopro che ci sono anche delle limitazioni sul numero di CD (max 10) e di fotografie (max 6-8) da tenere in cella, nonché alcune cose ad hoc per gli AS, tipo non più di una lametta e bomboletta del gas in cella. Ad aiutare la guardia al casellario c’è un detenuto lavorante, l’unico “comune” che ho incontrato finora. È della Costa d’Avorio e riesco a scambiarci giusto due parole in francese prima di salutarlo e il suo nome mi rimarrà impresso nella mente. Prima di farmi passare dai corridoi, la guardia chiama le altre postazioni per sapere se ci sono altri detenuti in giro. In matricola mi fanno la foto e le impronte di rito, poi guardando fuori la neve che ricopre ogni cosa mi esce fuori: “Un bel giorno per essere trasferiti”, e la guardia della matricola, una ragazza con la voce genuina e sincera, mi risponde: “Sì, la neve purifica…”, grassa risata “Eh, come no!?”. In sezione, seconda perquisizione della roba e integrale, infine mi mostrano la cella. È più grande che alle Vallette e singola, poi scoprirò che non lo fanno per tua comodità, ma per limitare i contatti tra detenuti. In AS, infatti, anche le due ore di socialità dalle 17.00 alle 19.00 avvengono in corridoio sotto gli occhi delle guardie e delle telecamere. Il passeggio è molto piccolo, massimo 10×10, e le mura in cima hanno delle grate che rientrano. Ci sono degli orari per fare la doccia ma sono abbastanza flessibili. Il pranzo è verso mezzogiorno e la cena alle 16.30/16.45, a ridosso della socialità, il che è un po’ un problema. Mangiare assieme o cucinare è impossibile, il che rischia di diventare più che altro un onere di nutrizione ed è avvilente per noi che eravamo abituati a grandi banchetti per grandi chef.
Il blindo viene aperto alle 8.00 e richiuso alle 11.00, l’aria si fa dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 13.00 alle 15.00… tutti orari del cazzo. In alternativa all’aria ci sono una stanzetta con pesi e cyclette e un tapis roulant duro imbastito e la “saletta-disco” con 1 tavolino, 1 sgabello, 1 stendino e il tanto agognato ping-pong.
La spesa si effettua il sabato per il lunedì dopo, il che significa che noi siamo stati 11 giorni senza spesa. La merce mi sembra un po’ più cara che a Torino e forse alcuni alimenti (come frutta e verdura) sono anche aumentati di recente, in compenso il carrello e mediamente accettabile. […]
I compagni ci hanno accolto bene, offrendoci tutto quello di cui avevamo bisogno, Francesco ci intrattiene con i mille racconti della sua vita, di una saggezza carceraria trentennale. Con Gianluca di Roma e Ivano iniziamo a conoscerci e ci lanciamo in discussioni sul mondo che ci circonda, siamo molto diversi e questa è una ricchezza se la si sa mettere a frutto.
Per quanto riguarda le differenze tra il mio ingresso nelle sezioni normali e poi invece nel circuito AS, direi che ce ne sono tante, tenendo presente che delle sezioni normali ho visto solo i N.G. (nuovi giunti) che sono un po’ una realtà a sé, per quanto ricca di stimoli. Ti ricordi tutto il discorso nella prima lettera sul fatto che ti lasciano andare a sguazzare nel nulla di partenza? Qua è l’esatto opposto, almeno come impatto iniziale, il che non vuole dire che qualsiasi cosa ti viene data, ma di sicuro sono celeri nelle risposte. La prima sensazione è quella di averceli appicciati al culo, per cui non è come prima dove sei osservato solo se ti esponi e soprattutto se lo fai al di sopra degli altri. Qua sei sempre osservato ed è come se ricercassero ogni minimo gesto sopra le righe. Col passare del tempo questa sensazione si attenua ma resta una caratteristica fondamentale. Questo, unito al fatto che la sezione è piccola e con poche persone, lascia meno gioco alla possibilità di emergere con delle rimostranze ben amalgamate col resto dei detenuti. Ai N.G. quei pochi episodi di protesta, anche se erano di fatto spinti da una minoranza, riuscivano a manifestarsi come una spinta di tutti anche se solo accennati o per poco tempo. In più lì mi sentivo veramente uno fra tanti e le guardie non mi trattavano diversamente. Uno degli obiettivi è quello di trovare un linguaggio comune tra detenuti per parlare dei problemi che entrano direttamente in contrasto con il trattamento a cui si è sottoposti, senza ricadere nella lagna e non è detto che tra compagni sia più facile. Il senso di impotenza colpisce tutti, soprattutto in AS e lo percepisco anche sulla mia pelle, anche se io sono ottimista di natura. Si può dire che le sfide sono le stesse, in fondo, ma cambia il livello di partenza, nonché l’impatto concreto delle tue azioni, inoltre qua come ti muovi interloquisci direttamente con i piani alti, il che non vuol dire che ricevi risposte differenti dagli altri detenuti… ovvero “picche”. Mi sono dimenticato di dire che ci è precluso ogni orizzonte, in senso letterale: infatti davanti alle finestre ci sono dei grossi pannelli di plexiglass opaco con l’effetto di castrare l’ispirazione e l’immaginazione.
[…] Il presidio è stato fantastico, sentivamo tutto molto bene, anche gli interventi. Abbiamo gridato soprattutto quando sentivamo chiamare i nostri nomi, un paio di volte mi è sembrato ci fosse un botta e risposta e qualcuno (una voce femminile) ha detto “vi sentiamo!” E poi quando ho gridato “la valle non si arresta” scandendo le parole ha risposto che non mi capiva. […] A momenti distinguevo anche quello che dicevano le voci senza megafono né altro. La musica era super yeah, degno di nota il remix di “Voglio vederti danzare” mixato all’intervento di Mau. Per le prossime sedute di tamarria è ben accetto tutto il repertorio dubstep da Skrillex a Nero, sull’onda di “Promises” che è stata lanciata anche al presidio. […] Fatemi sapere se qualche detenuto di qua mi scrive… a parte Mattia.
Zero Stress!! Per tirare fuori una citazione dal mio atavico retroterra hip-hop!
Niccolò
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