10 febbraio 2014

TIRA E MOLLA

da macerie

Tira e molla

Ancora novità dalla sezione di Alta Sicurezza femminile di Rebibbia.  Vi avevamo informato su come Chiara, dopo aver trascorso, appena arrivata a Rebibbia, alcuni giorni in cella con un’altra compagna, fosse stata messa improvvisamente in cella da sola e senza alcuna possibilità di incontrare le altre detenute della sezione, in isolamento dunque, come nei precedenti cinquanta giorni di carcere trascorsi alle Vallette. Isolamento che però in questo caso, fortunatamente, è durato appena un giorno. Infatti dopo neanche ventiquattr’ore a Chiara è stata ridata la possibilità di fare socialità con le altre detenute.

Dietro quest’apparente schizofrenia di chi prende le decisioni, si nasconde piuttosto, a nostro parere, un contrasto tra le evidenti pressioni provenienti dalla Procura torinese sul rendere quanto più afflittive possibili le condizioni di detenzione dei quattro compagni e le esigenze di altre autorità, come la direzione del carcere di Rebibbia, non disponibili a stravolgere il proprio operato per assecondare le richieste provenienti da Torino.

Per comprendere le cause dell’atteggiamento della Procura torinese è però necessario fare un passo indietro ritornando alle ipotesi su cui si fonda questa inchiesta. L’immagine che viene in mente, pensando alle motivazioni che sostengono l’accusa di terrorismo contro Claudio, Chiara, Mattia e Niccolò, è quella di una spugna. A impregnarla e renderla così pesante non è tanto l’azione contro il cantiere e il danneggiamento dei mezzi, avvenuti nel maggio scorsi.

Non è tanto la natura della condotta, come si direbbe utilizzando il linguaggio della giurisprudenza, ma piuttosto il contesto in cui quest’azione si è verificata. Per descrivere questo contesto la procura elenca una lunga serie di iniziative di opposizione al Tav verificatisi negli ultimi tempi. Come sottolinea Claudio in una lettera, gli episodi in questione sarebbero 111, «dai sabotaggi ai mezzi delle ditte che lavorano nel cantiere di Chiomonte alle scritte nei bagni a Nichelino, dagli scontri di piazza a un pollo morto trovato sotto casa di Esposito, da uno striscione lasciato davanti all’abitazione del sindaco di Susa ai cassonetti bruciati durante una sagra paesana a Sant’Antonino». Elencando questi fatti, i Pm, e i giudici che finora hanno dato loro retta, sottolineano come è l’opposizione al tav nel suo complesso, il tentativo costante di dare concretezza a quel “no!” attorno a cui la lotta si è sviluppata, a impregnare la spugna rendendola talmente pesante da consentire l’utilizzo della categoria di terrorismo.

Claudio, Chiara, Niccolò e Mattia, attraverso l’accusa di terrorismo, sono quindi, in sostanza, accusati di tutte le azioni e le iniziative che da ormai tantissimi anni mettono i bastoni tra le ruote alla realizzazione della Torino-Lione. Per questo tra le persone offese indicate dai Pm, compaiono la Commissione Europea e la Presidenza del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana oltre a Ltf e i 105 tra poliziotti, carabinieri, finanzieri, alpini e operai presenti al cantiere nella notte tra il 13 e 14 maggio. E anche la decisione di fissare l’inizio del processo il 14 maggio, a un anno esatto dall’azione contro il cantiere, è una scelta dal forte valore simbolico.

Se sulle spalle dei quattro vengono scaricati tutti i problemi e le emicranie che la lotta contro il Tav ha provocato alle autorità, non ci si può poi sorprendere del particolare accanimento che quest’ultime stanno riservando ai compagni.

Sotto questa lente va allora letta la decisione di qualche settimana fa di interrompere improvvisamente i colloqui concessi, subito dopo gli arresti e a indagini ancora aperte, a familiari e compagni. E la decisione successiva di riaccordare questi colloqui, a indagini ormai chiuse, ai soli familiari. In genere, in inchieste simili i colloqui non vengono concessi inizialmente ma una volta autorizzati magari dopo un po’ di tempo e a indagini ormai chiuse, non subiscono improvvise e immotivate sospensioni. La logica del tira e molla seguita in questo caso vuole soltanto tentare di logorare il più possibile i nervi dei compagni arrestati. Non appena ci si abitua a una certa situazione, subito questa viene stravolta con decisioni improvvise e del tutto inaspettate rispetto alle normali procedure.

Una situazione simile si sta verificando rispetto alle condizioni detentive. Oltre alla situazione di Chiara che abbiamo descritto sopra, particolarmente indicativo risulta anche il trattamento riservato ai maschietti.

Dopo un mese e mezzo trascorso insieme nel carcere delle Vallette, Claudio, Mattia e Niccolò vengono trasferiti in carceri predisposte a rinchiudere detenuti sottoposti al regime di Alta Sicurezza. Claudio viene portato a Ferrara, Mattia e Niccolò invece ad Alessandria. E proprio ad Alessandria, oltre alle finestre con le bocche di lupo e il plexiglass opaco che impediscono di veder fuori, oltre all’impossibilità di incontrare qualsiasi altro detenuto che non sia catalogato in Alta Sicurezza, a Niccolò e Mattia viene imposto il divieto di incontrarsi.

E l’unico modo per imporre il divieto di incontro in una piccola sezione che ospita solo sei prigionieri è quello di turnare la presenza dei compagni durante i momenti di vita collettiva. Così nel cortile dove gli altri detenuti in Alta Sicurezza fanno due ore d’aria, la mattina e poi il pomeriggio, Niccolò e Mattia scendono alternati, prima uno e poi l’altro, facendone solo una. Anche durante la socialità, nel corridoio dove questa si svolge, prima esce uno, mentre l’altro viene blindato dentro la cella, poi il secondo e ad esser chiuso in cella questa volta è il primo.

Oltre a voler sfibrare i nervi dei compagni aggravando, più di quanto già non lo siano, le loro condizioni di detenzione, con questi provvedimenti le autorità vogliono lanciare un chiaro monito a tutti gli altri. Ecco cosa può accadere se si continua ostinatamente a dire “no!“. Ma, riprendendo un pezzo di una lettera di Claudio, Niccolò e Mattia, se i compagni in carcere non si stanno certo lasciando abbattere da tanto accanimento, chi continua a lottare fuori non può certo essere da meno.

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